Fonte: Corriere della Sera
di Francesco Verderami
Draghi va avanti e convoca per oggi il Consiglio dei ministri sulla delega fiscale
Ieri il premier ha voluto commentare il risultato delle Amministrative annunciando per oggi il Consiglio dei ministri che dovrà varare la delega fiscale. È stato un modo per mandare «un avviso alla maggioranza», come spiega un rappresentante del governo: «Perché Draghi aveva già pronto il testo. Se aveva accolto la richiesta di rinviare la riforma a dopo le elezioni, ora dice ai partiti: abbiamo degli impegni». E fine della ricreazione.
Che il premier non intendesse stare sotto lo scacco delle forze politiche e delle loro scaramucce, era parso chiaro ai ministri durante l’ultimo Consiglio. Prima Draghi li aveva invitati a «tenere le beghe tra partiti fuori da questa stanza». Poi li aveva gelati con una battuta fatta mentre si discuteva la norma sui referendum: «… E se l’anno prossimo ci fossero le elezioni anticipate, vorrebbe dire che i referendum slitterebbero».
Nessuno però ha la forza di toccare il governo. Sarà vero, come dice la Meloni, che la bassa affluenza alle urne testimonia una «crisi della democrazia», ma è anche il segno di una profonda disaffezione della pubblica opinione verso le modalità d’azione dei partiti, come riconosce Salvini nella sua autocritica. E il voto conferma la debolezza delle forze politiche. La debacle del centrodestra evidenzia come la coalizione non abbia un leader capace di fare sintesi ma ne ha due impegnati in un’eterna competizione. Tanto che ieri FdI ha subito rivendicato di esser diventato il «primo partito» dell’alleanza.
Sul versante opposto l’affermazione del Pd avviene sulle macerie del grillismo. Il centrosinistra oggi non esiste, dato che «al Nord M5S sta scomparendo», come ha evidenziato Prodi, offrendo a Renzi la possibilità di dire che «Iv è avanti ai grillini quasi ovunque». In queste condizioni la dote che Conte porta in dote a Letta è insufficiente per competere con gli avversari. E infatti il leader del Pd deve parlare di una «coalizione allargata», evocando il progetto della maggioranza Ursula. Un disegno che per realizzarsi dovrebbe però passare per una rottura del centrodestra di governo.
Ma proprio per impedire un simile scenario, Salvini si è affrettato a sottolineare che «noi stiamo nell’esecutivo e vi rimarremo. E se qualcuno usasse il voto per abbatterlo, sarebbe irresponsabile». Parlava al Pd perché Meloni intendesse, e anche per ripararsi dalle critiche interne al suo partito, dopo una campagna elettorale giocata sul green pass invece che sui risultati ottenuti dal governo di cui fa parte. Una linea che lo ha consegnato alla sconfitta. Si vedrà se il leader del Carroccio sarà capace di gestire il rapporto con il premier e quello con la Meloni: già ieri è tornato a criticare il Viminale e l’ipotesi di revisione del catasto. Ma non coi toni usati in campagna elettorale: non può più farlo.
Così si torna a Draghi, attorno a cui si stringono per necessità i partiti della maggioranza. Compreso ovviamente il Pd, dove nel giro di sei mesi è cambiato il lessico con cui si parla del governo di larghe intese. All’inizio era stato vissuto come «un pericolo» da autorevoli dirigenti del Nazareno. Oggi invece a Draghi si porta in dote la vittoria, «perché grazie al nostro successo si rafforza», dice Letta. E il ministro Orlando, che non voleva saperne di sedere al fianco della Lega «nemmeno se a Palazzo Chigi ci fosse superman», adesso scommette che «il governo potrà andare avanti con più velocità e determinazione». Proprio quello che ha chiesto Draghi.
Ma lo scontro tra partiti non si ferma. Si sposta sulla corsa per il Quirinale. Meloni già sfida Letta, dicendosi disponibile a votare Draghi se poi si andasse subito al voto: il guanto in realtà è lanciato a Salvini. Così il centrodestra potrebbe nuovamente dividersi, disperdendo la forza dei numeri di cui dispone con i suoi grandi elettori e lasciando al Pd la regia sul Colle. Se non fosse che anche il centrosinistra è diviso, perché Conte non controlla i gruppi parlamentari e il Pd annovera troppi candidati. Sul Quirinale potrebbe scoppiare l’ennesima crisi dei partiti.