Il timore del leader del Carroccio di una polverizzazione del consenso. La vicenda risale a metà maggio, quando i Verdi chiesero a FdI di uniformare lo sbarramento per le Europee a quello del Parlamento nazionale
Se la premier vuole accelerare è perché «c’è tanta carne al fuoco. E se non si va veloci sui dossier—come dice un dirigente centrista — la carne rischia di bruciarsi. Che non è mai una bella cosa per chi cucina…». Tira un’aria elettrica nel centrodestra, ed è solo settembre.
Così, per evitare di ritrovarsi a dicembre in mezzo al caos, il governo ha dato inizio alla stagione dei vertici: dopo una riunione politica, si prepara a discutere di Finanziaria con la sua maggioranza. Nel frattempo però non cessano le ostilità alla linea di confine, come l’ultima scaramuccia sull’abbassamento della soglia per l’accesso a Strasburgo dal 4 al 3%.
La vicenda risale a metà maggio, quando i Verdi chiesero a FdI di uniformare lo sbarramento per le Europee a quello del Parlamento nazionale. Consultate informalmente, tutte le forze di maggioranza si mostrarono favorevoli alla richiesta, che peraltro interessava ai centristi di governo. Tre mesi e mezzo dopo, però, Salvini ha cambiato idea. E annunciando la sua contrarietà alla riforma, ha lasciato che il cerino si consumasse tra le dita della premier, indiretta regista della trattativa.
Il caso potrebbe essere derubricato al solito duello tra alleati-rivali. Ma nel centrodestra c’è chi invita a concentrarsi sul timing. Tra il passaggio dal «sì» al «no» della Lega c’è una data che rappresenta un autentico spartiacque per i rapporti all’interno della coalizione: è il 12 giugno, giorno della scomparsa di Berlusconi . Da allora si sono moltiplicati gli attacchi del Carroccio a Forza Italia, e contemporaneamente sono cresciute le preoccupazioni di FdI sulla tenuta elettorale degli azzurri. Senza più il Cavaliere, Salvini mira a svuotare FI, mentre Meloni lavora per tenere in piedi quell’area ed evitare che l’alleanza si destabilizzi.
La riduzione del barrage al 3% rappresenterebbe per i forzisti una sorta di paracadute di emergenza, anche se autorevoli rappresentanti della destra temono che la soluzione possa non bastare. Sostengono che «la fase politica è cambiata», che il centro non ha più le capacità attrattive del passato «per carenza di leadership, di parole d’ordine e di elettori». È un processo che neppure l’ultimo Berlusconi era riuscito ad arrestare, «anche se aveva saputo rallentarlo». Al di là delle previsioni, è comunque chiaro che la premier e il suo vice hanno interessi contrapposti sulle sorti di Forza Italia. Che si porta appresso le sorti del governo.
L’affondo del leader leghista sarà pure funzionale a sbarrare il passo a Renzi, che ha i suoi stessi intenti. Ma è anche una mossa difensiva. Terminata l’epoca del Cavaliere, Salvini teme infatti che la riduzione della soglia di sbarramento possa produrre nelle urne una polverizzazione del consenso. E sa che un simile risultato decreterebbe il successo del progetto di Meloni: una coalizione basata su FdI circondato solo da cespugli. Ecco come una modifica all’apparenza inoffensiva misura la complessità della sfida che si gioca nel centrodestra.
E non è l’unico elemento di frizione in questa fase tra Salvini e Meloni. Sulla riforma delle province — cara alla Lega e che prevede un ritorno all’elezione diretta — gli alleati-rivali hanno un approccio diverso. Nel merito la premier non è contraria, ma è perplessa sulla tempistica dell’approvazione. In vista delle Europee non intende «offrire il fianco all’anti-politica. Non dobbiamo dare argomenti di questo tipo». Già li vede i Cinquestelle denunciare il centrodestra di aver «aumentato le poltrone». E immagina che gli attacchi possano arrivare anche dall’estrema destra. Perciò ritiene sia meglio temporeggiare. Al contrario del vicepremier. Ovviamente.
È tutto così nel centrodestra: una quotidiana e logorante competizione, garantita dall’assenza di un’opposizione competitiva che pone (per ora) al riparo la maggioranza. E le consente di ragionare senza patemi delle prossime Regionali: del voto a febbraio in Sardegna; di un election day da organizzare a marzo per la Basilicata (dove non c’è ancora un’intesa) e anche per l’Abruzzo e il Piemonte (dove è prevista la conferma degli uscenti).
La nave va. E non è alle viste un’alternativa. Anche se l’altro giorno Lupi ha detto ad alcuni alleati: «Ricordiamoci che i governi non sono mai caduti per mano delle opposizioni ma per l’implosione delle maggioranze». Sarà stato solo una riflessione statistica. Chissà.