22 Novembre 2024

Saremo chiamati a una consultazione che si svolgerà con il sistema proporzionale nudo e crudo, ad alto tasso di pericolosità e un alto affanno di sopravvivenza

E’ impressionante la superficialità con cui le forze politiche si preparano al confronto identitario che starà alla base delle prossime elezioni europee, le quali non prevedono logiche di schieramento e quindi si giocheranno essenzialmente fra soggetti politici che dovranno mettere sul piatto solo la loro specifica identità collettiva.
Si tratta di una sfida a proporzionale nudo e crudo, ad alto tasso di pericolosità e con un alto affanno di sopravvivenza. Si capiscono allora i tentativi dei vari partiti di focalizzare ed esaltare la propria identità culturale e politica. Alcuni si affannano a rinforzare la propria immagine storica, di fiamme emotive o di pantheon di antenati magari presi in prestito; altri si rifugiano nella difesa etnica contro l’inquinamento migratorio; altri cercano di andare in piazza, pur sapendo che le piazze possono dichiarare una identità ma non possono crearla; altri cercano di cavalcare le onde d’opinione, pur sapendo che esse sono le vere nemiche dell’identità di largo respiro e di spessore; altri rincorrono identità minoritarie (di genere o di collocazione sociale), pur sapendo che esse valgono per i singoli o per piccoli gruppi, ma mal si condensano in una identità collettiva; altri navigano nelle tante disuguaglianze e nelle potenziali nuove conflittualità collettive, pur sapendo che nella nostra società molecolare le diseguaglianze restano molecolari; altri ancora si aggrappano alle guerre in corso, pur sapendo che lo schierarsi per l’una o per l’altra parte in lotta (o per la più facile vocazione alla pace) non garantisce ormai un peso reale nella dialettica nazionale.
Si potrebbe continuare nell’elenco dei tentativi, ma la conclusione che se ne può comunque trarre è che esse portano solo ad istanze, posizioni e ambizioni che rivelano una complessiva fragilità, non compensata dal gioco delle opinioni vaganti e dall’altrettanto vagante personalizzazione delle leadership.
Per bisogno di conforto, sono andato a rileggere il Giulio Bollati de «L’italiano» e ho scoperto, quasi con rabbia, che duecento anni fa, fin dal leopardiano «Discorso sui costumi degli italiani» del 1821, la discussione sull’identità collettiva era molto più ricca e complessa rispetto agli attuali sforzi identitari. E la frustrazione si accentua se pensiamo al sottotitolo di Bollati («Il carattere nazionale come storia e come invenzione»), visto che nella dialettica identitaria di oggi c’è poca profondità storica e quasi nessuna invenzione. E non basta ripiegare sulla forza attrattiva di leadership personalizzate, vista peraltro la decrescente vitalità delle due ultime esperienze importanti – Berlusconi e Prodi – che pure si presentarono alla sfida con illustri storie professionali e con una ricca inventiva programmatica. Oggi, se va bene, siamo all’autobiografia, se non a fugaci cenni biografici.
C’è allora tanto lavoro da fare per mettere a fuoco identità collettive degne delle difficoltà del momento; ed è un lavoro di scavo da svolgere in profondità, superando anche la preoccupazione che un tale lavoro non potrà produrre frutti prima delle elezioni europee del 2024. Mi piace, in questa prospettiva, partire da una lettera che i monaci di Bose hanno scritto agli amici in occasione dello scorso Avvento: «L’identità non è mai stata e non può essere qualcosa immutabile, identico a sé stesso. L’identità è data dal suo declinarsi nella vita concreta, quotidiana. E questa è fatta di relazioni che ci cambiano, di linguaggi che ci trasformano». Più dialettica relazionale e più linguaggio delle cose, in altre parole.
È una indicazione che viene dal mondo cattolico, che pure di problemi di identità ne ha tanti; ma che proprio per questo può essere presa come stimolo di coraggio (di fede e di ragione, direbbe Ratzinger) verso il divenire della società degli uomini: di coraggio a rilanciare il mondo delle relazioni (strada regale per uscire dal populismo del «vaffa» che ha avvelenato gli ultimi nostri anni) e di coraggio a rinnovare il linguaggio (che le troppo accentuate drammatizzazioni hanno reso inerte e senza significato). Un programma troppo ambizioso, si potrebbe osservare. Ma dovremo pure uscire, un giorno, dal sobbollire delle pentole dei nostri quotidiani fornelli.

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