ESTERI
Fonte: Corriere della Sera
di Aldo Cazzullo
Anche sommando i seggi di Rajoy (Pp) con quelli di Ciudadanos non si arriva alla soglia di 176. Il premier potrebbe rinunciare e mandare avanti la sua vice, Soraya Saenz de Santamaria. L’alternativa è un’alleanza di sinistra, che però non ha i numeri
Il boato di piazza Reina Sofia, ai margini del quartiere multietnico e popolare di Lavapiés, dove sono riuniti i sostenitori di Pablo Iglesias, si sente in tutto il centro di Madrid: Podemos supera il 20%, è il terzo partito, tallona i socialisti. Però il vincitore, come previsto, è il Partido Popular del premier Mariano Rajoy. E sfilano le bandiere azzurre lungo la Gran Via, la Madrid dei grandi magazzini e dei palazzi del potere. Va detto che il Pp è molto lontano dalla maggioranza assoluta. E non ha alleati.
I Ciudadanos di Albert Rivera sono usciti ridimensionati, dopo che tre settimane fa erano stati in testa nei sondaggi. Anche sommando i seggi di Rajoy con quelli di Rivera non si arriva alla fatidica soglia di 176. Il premier potrebbe rinunciare e mandare avanti la sua vice, Soraya Saenz de Santamaria, che avrebbe qualche chances in più di formare un governo. Magari con l’astensione dei socialisti: prospettiva che stanotte appare ancora molto distante. L’alternativa è un’alleanza di sinistra, che però non ha i numeri e avrebbe bisogno del sostegno di tutti gli autonomisti: i baschi, i galiziani, e pure i catalani, che vorrebbero dividere il Paese. Iglesias si è già espresso a favore di un referendum per l’indipendenza catalana.
L’unica maggioranza chiara sarebbe una grande coalizione tra i popolari e i socialisti; che però non fa parte della cultura politica del Paese. “Avremo un Parlamento all’italiana ma senza italiani” aveva previsto l’ex premier Felipe Gonzalez. Sbaglia però chi ritiene che la Spagna possa permettersi una lunga stagione di instabilità. L’Europa tenterà in ogni modo di evitarlo. E l’Europa, piaccia o no, ormai esiste. La Spagna di Rajoy era quasi un Paese satellite della Germania: il bastione a Ovest del sistema tedesco; quello a Est era la Polonia, che ora la Merkel ha perduto. Il grosso del debito pubblico spagnolo è in mano ai tedeschi, che non a caso hanno fatto arrivare 40 miliardi di euro per salvare le banche (non i titolari dei mutui però: 150 mila famiglie hanno perso la casa). Ora Berlino rischia di perdere un altro alleato; e Bruxelles non vede certo di buon occhio la prospettiva che la quarta economia dell’eurozona resti senza governo. Le pressioni su Rivera, su Rajoy e anche sui socialisti – non solo su Sanchez ma sugli ex leader Gonzalez, Zapatero, Rubalcaba – saranno fortissime, anche per evitare l’ascesa di Podemos. Di sicuro alla Merkel non spiacerebbe esportare a Madrid la formula della grande coalizione.
Un ruolo importante sarà quello del nuovo re, Felipe VI. Queste elezioni sono storiche anche perché sono le prime senza Juan Carlos da quando esiste la democrazia. La Costituzione riserva al monarca un “potere di arbitraggio”. Il vecchio re non l’ha mai esercitato: il sistema bipartitico consegnava sempre un vincitore chiaro. Neppure Felipe può sostituirsi ai partiti. Ma può esercitare una persuasione morale affinché trovino un accordo. Le prime telefonate sono partite già stanotte. Tre settimane fa Iglesias era al 14%. Nato in un talk-show, il fondatore ha impostato la campagna sui dibattiti e sui social network. Ha abbandonato i sogni da sinistra radicale, è passato da Chavez alla Svezia, dall’anarchia alla socialdemocrazia, dall’uscita dalla Nato all’ossequio al re. E ha giustificato la svolta con parole di rara spregiudicatezza: «L’obbligo di un rivoluzionario è sempre, sempre, sempre vincere». Lui, s’intende, è un rivoluzionario, anche se ha esaltato i militari: «Un generale dell’Aeronautica mi ha assicurato di essere pronto a difendere la sovranità nazionale dalla Trojka». In questo modo Iglesias ha conquistato i voti dei giovani: uno su due è senza lavoro, in 50 mila hanno dovuto lasciare la Spagna nei primi sei mesi dell’anno.
Podemos è la versione spagnola di un fenomeno mondiale: la rivolta contro le élites, l’establishment, i vecchi partiti, le forme tradizionali di rappresentanza. Ne hanno fatto le spese i socialisti di Pedro Sanchez, che ha dimostrato di essere solo bello. Potrebbe essere presto sostituito alla guida del Psoe dalla combattiva presidenta dell’Andalusia, la bionda Susana Diaz. L’euforia che percorre i quartieri popolari della capitale non deve far dimenticare che il primo arrivato è Mariano Rajoy. Nelle urne è scattato in parte quel richiamo all’ordine che ha ridimensionato Ciudadanos. Il premier ha confermato di essere un bravo incassatore; e non solo perché ha assorbito bene il gancio sinistro che gli ha tirato un diciassettenne per le strade della sua città, Pontevedra, in Galizia. Rajoy ha fatto una campagna in difesa, rivendicando i risultati economici – il Pil cresce al 3,4%, anche se la disoccupazione resta la più alta d’Europa – ed evocando il pericolo di un governo di estrema sinistra. Il suo lungo viaggio nella Spagna profonda, conservatrice, cattolica delle campagne e dei villaggi non è bastato. Rajoy perde oltre 60 seggi. Arriva primo anche perché si è posto come baluardo contro la divisione del Paese. La Catalogna ha premiato i partiti indipendentisti. Ma la secessione appare molto complessa. E’ più probabile un lungo periodo di stagnazione e di contrasti, che certo non farà bene né a Barcellona né al resto del Paese. Anche per questo alla Spagna servirebbe più che mai un governo.