16 Settembre 2024

Nella sua storia non è mai stata controllata dalla Repubblica popolare cinese: l’essenza della questione taiwanese è nello scontro tra due sistemi e modi di vivere. Le due mentalità sviluppate a Pechino e Taipei sono inconciliabili

Poter osservare da vicino una democrazia in campagna elettorale, soprattutto quando si è trascorso qualche anno a Pechino, dà sempre un’emozione. In più, Taiwan mostra che la libertà politica e civile può parlare il cinese, fa pensare a come si sarebbe potuta evolvere anche la grande Cina se il Partito comunista non avesse tolto ai cittadini il disturbo di andare alle urne per scegliere da chi essere governati.
Si dice che il voto di sabato deciderà anche l’esito della sfida di potenza tra Cina e Stati Uniti. Ed è probabile. Ma Taiwan non può essere racchiusa in un dossier geopolitico. Quello che i taiwanesi chiedono all’uomo che domani eleggeranno presidente è di continuare a garantire la loro libertà di decidere ogni quattro anni, per migliorare in pace il tenore di vita. Con l’aiuto dello Stato, non per concessione di un Partito-Stato come succede dall’altra parte dello Stretto. Una missione difficile, di fronte all’arroganza di Xi Jinping. La risposta dei candidati che si contendono la guida di Taiwan è piuttosto chiara: concordano sul mantenimento dello status quo che li tiene a distanza di sicurezza dall’abbraccio soffocante della Cina.
Poi ci sono sfumature tattiche: il candidato governativo William Lai parla di «sovranità di fatto, da non dichiarare formalmente», per evitare l’immediata reazione funesta della Cina. A Pechino comunque, lo odiano e lo bollano come «separatista distruttore della pace». L’avversario Hou Yu-ih del Kuomintang sostiene che bisogna anche recuperare un dialogo per ridurre la tensione, senza farsi troppe illusioni. Perché l’unica offerta possibile di Xi è quella di discutere su come replicare a Taipei la formula «un Paese due Sistemi» di Hong Kong. Ma nell’ex colonia britannica alla quale il Partito comunista aveva garantito nel 1997 cinquant’anni di semi-democrazia speciale, sappiamo com’è finita: nel 2020 è stata imposta la legge di sicurezza cinese, soppressa la libertà di esprimere il dissenso. Chiara dunque la posizione della politica taiwanese: difendere la sua piena democrazia, ridurre il rischio di un’invasione, sperando di non essere lasciata sola e che così la Cina faccia bene i conti con il disastro che comporterebbe una guerra.
Xi Jinping è solo apparentemente ancora più chiaro: dice che la riunificazione è «storicamente inevitabile» e ricorda agli Stati Uniti che la loro relazione è fondata sul riconoscimento di «Una sola Cina». Per rafforzare il concetto, da molti mesi si susseguono imponenti giochi di guerra cinesi nello Stretto. Xi però si appella a una storia non vera, perché Taiwan non è mai stata controllata dalla Repubblica popolare cinese e per secoli era stata considerata dalle dinastie imperiali una trascurabile «palla di fango» nell’oceano, lasciata ai navigatori portoghesi che invece la chiamarono Formosa (bella), poi agli olandesi, ai giapponesi. Nel 1949 diventò l’ultima ridotta autoritaria del generalissimo Chiang Kai-shek sconfitto da Mao nella guerra civile sul continente. Nel 1996 il Kuomintang ha avuto il coraggio di scegliere la democrazia a costo di perdere il potere.
A ben vedere, la riunificazione perseguita dal Politburo comunista non è solo territoriale, nonostante Taiwan abbia oggi un grande valore strategico, sia militarmente sia per il fatto che fornisce al mondo globalizzato il 90% dei semiconduttori più avanzati, indispensabili all’industria globalizzata. L’essenza della questione taiwanese è nello scontro tra due sistemi e modi di vivere. Le due mentalità sviluppate a Pechino e Taipei sono inconciliabili.
Se lo è lasciato sfuggire anche un alto diplomatico di Xi, quando alla tv francese ha detto che certamente, dopo la riunificazione dovremo «rieducare» la gente della provincia taiwanese. Espressione illuminante del metodo cinese. Il più astuto Xi quando vuole mostrarsi magnanimo si appella ai «compatrioti cinesi dall’altra parte dello Stretto».
Ma trucca ancora la realtà, perché i sondaggi nell’isola dicono che solo il 2,3% dei 23 milioni di abitanti si sentono «cinesi», mentre il 62% si dichiara solo taiwanese e meno del 30% sia taiwanese sia cinese. E comunque, l’88% della popolazione vuole mantenere lo status quo: la separazione di fatto, senza chiamarla indipendenza. Ancora negli Anni 80 i dati erano quasi invertiti a favore del sentimento di appartenenza alla vicina cultura cinese. Gli esperti di sociologia di Taipei sostengono che l’affermazione della nuova identità nazionale taiwanese è stata accelerata proprio dall’arroganza del Partito-Stato di Pechino, dalla sua ansia di distruggere il modello di democrazia con valori occidentali che sa parlare anche il mandarino.
Questa è la teoria. Sul campo, il successo militare di un’invasione sarebbe tutt’altro che scontato. Anche le armate di una superpotenza si possono impantanare di fronte alla volontà di resistenza popolare, come stiamo vedendo in Ucraina. Sull’ipotesi di difendere Taiwan, l’Europa al solito è incerta e divisa. Gli Stati Uniti per decenni si sono nascosti dietro «l’ambiguità strategica», armano Taipei ma non dicono se rischierebbero la vita dei loro soldati per fermare l’esercito cinese. Joe Biden è stato subito corretto dai suoi consiglieri quando ha detto che sì, l’America avrebbe il dovere di intervenire contro un attacco della Cina. Comunque, il costo umano del nuovo fronte di una guerra mondiale a pezzi, come la chiama lucidamente il Papa, sarebbe atroce. E se lasciasse Taiwan al suo destino, l’America finirebbe di essere una superpotenza globale.
Chiedendo scusa per aver fatto anche i conti preventivi del danno economico, gli analisti internazionali avvertono che un’invasione su vasta scala brucerebbe 10 mila miliardi di dollari nel mondo, il doppio della pandemia. Sabato i taiwanesi faranno la loro parte rinnovando il vertice della loro democrazia. Ma poi la comunità internazionale dovrà presidiare con determinazione la pace. Costa meno che affrontare una guerra.

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