20 Settembre 2024

Fonte: La Repubblica

di Mario Calabresi

Nel voto di oggi il rischio di una rottura storica è reale. Ciò che sembrava impossibile ha preso forma. È una partita in difesa perché i progressisti non hanno parole d’ordine efficaci da opporre agli slogan populisti

Vincerà anche questa volta l’irrazionalità, il gesto clamoroso e disperato contro un mondo da cui ci si sente dimenticati e esclusi? Il modello Brexit incendierà anche le pianure americane o un sussulto di razionalità riuscirà a tenere a bada gli spiriti selvaggi che soffiano a ogni latitudine?
Se guardiamo al voto di oggi con il fiato sospeso è perché il rischio di una rottura storica è reale, perché ciò che sembrava impossibile e quasi ridicolo ha preso forma e consistenza. Tanto che il presidente in carica, nell’ultimo giorno di campagna elettorale, è stato costretto a correre in Michigan, New Hampshire e Pennsylvania.
È andato nei tre stati operai tradizionalmente democratici, per provare a scongiurare un cambio di bandiera dagli esiti fatali per Hillary Clinton. Se questo accade è perché l’avverbio tradizionalmente non ha più uso nel mondo, tali e tante sono le rotture di prassi, appartenenze e anche di senso comune a cui stiamo assistendo.
Si usa definire questo tempo come “Età dell’Incertezza”, ma ora stiamo scivolando sempre più nel tempo dell’Irragionevolezza. Irragionevole infatti sarebbe Donald Trump alla Casa Bianca: la vittoria dell’imbonitore, di chi spaccia ricette semplici e di immediata applicazione per risolvere istantaneamente problemi complessi e profondi. Si può sorridere e dire che non è la prima volta, ma l’importanza della posta in palio rende inadatto ogni paragone. Saremmo di fronte alla negazione di un sistema di valori, in più di un’occasione stravolti e negati ma formalmente sempre rispettati, che suonerebbe come una sorta di liberi tutti per populisti di ogni specie. Chi potrebbe più, per fare un esempio tra i tanti possibili, richiamare il premier ungherese Orbán al rispetto di una grammatica umanitaria quando l’uomo che siederà nello Studio Ovale ha proposto ricette più incendiarie delle sue?
L’unica certezza che ci resta è che si tratta di una partita tutta in difesa, in cui non c’è più spazio per parlare di costruzione, speranza, collaborazione. Le parole d’ordine dell’agenda mondiale sono ricorrenti, ci sono sempre un noi e un loro, una linea da tracciare, un muro da costruire, qualcuno da mandare a casa e molto da abbattere o più gentilmente da smontare. Di progettare si parla poco, perché è il concetto stesso di futuro che è diventato difficile da declinare.
È una partita in difesa perché i progressisti non hanno parole d’ordine convincenti da opporre agli slogan del populismo, dei nuovi razzismi e delle derive xenofobe. Perché non hanno spinta propulsiva e soprattutto non hanno la capacità di offrire nuove chiavi interpretative in grado di disegnare oggi un’agenda credibile.
Una vittoria di Trump non solo certificherebbe una rottura nel tessuto sociale americano, già drammaticamente avvenuta e difficilmente ricomponibile anche in caso di successo democratico, ma finirebbe per contagiare le altre democrazie occidentali sempre più fragili e sotto pressione.
Con lo stesso meccanismo con cui si generano le onde, nel modo magnifico con cui le descrive il premio Pulitzer William Finnegan nel suo potente memoir sul surf Giorni Selvaggi: “In mare aperto, una tempesta sconquassa la superficie dell’acqua, creando una mareggiata, un’increspatura di onde confuse e poco potenti che a mano a mano si addensano, si fanno più grandi e, incalzate dalla forza del vento, danno vita al mare grosso. A riva, su una costa lontana, noi riceviamo l’energia che si sprigiona da quella tempesta, irradiandosi attraverso acque più calme sotto forma di un treno d’onda”. Quella tempesta, figlia della delocalizzazione del lavoro, delle bolle speculative, delle paure di non essere all’altezza di un mondo profondamente cambiato dalla tecnologia, ha cominciato a gonfiare l’onda molto tempo fa ma quel treno d’acqua troppo a lungo è stato ignorato.
Oggi è la sfida di Trump, domani – la prossima primavera – sarà Marine Le Pen con il suo Fronte nazionale a togliere il sonno all’Europa e a moltiplicare fantasmi che si sono già ampiamente risvegliati. E ogni partita, ogni rottura sembra alimentare la successiva, in una giostra da cui non sappiamo come scendere.
Pensate alla Gran Bretagna, al modo amaro con cui si sta allontanando dall’Europa, agli istinti che queste rotture liberano: i tre giudici dell’Alta Corte che hanno imposto al Parlamento di votare sulla Brexit sono stati messi all’indice ed esposti al dileggio come “nemici del popolo”.
Un liberi tutti, una resa dei conti, una voglia di dileggio che sembra conquistare i cuori e annebbiare le menti. Ma per andare dove? Per costruire cosa?
L’idea è che non ci sia futuro e quindi nulla da tenere caro, nulla da preservare, da trattare con attenzione e allora si possono sfogare gli istinti, prendere a calci ogni cosa esistente, tanto se non esiste domani a cosa serve preoccuparsi se la casa brucia?
Così siamo ridotti a sperare di scampare il pericolo, in un mondo che viene giù, in cui saltano riferimenti, prassi e in cui non abbiamo più il tempo e la forza di far sentire la voce di fronte a quelle violazioni che ci hanno sempre indignati. E quelli che della democrazia non si preoccupano troppo, si chiamino Erdogan, Al Sisi o Putin, gonfiano il petto vedendoci deboli e smarriti.
Abbiamo bisogno di orgoglio, di persone capaci di recuperare i nostri valori e di rivendicarli e di cittadini che siano capaci di tenere la testa fredda e di non farsi contagiare dalle sirene del cinismo e dello sfascio.
Se vincerà Hillary sarà solo un punto di partenza. Il resto è tutto da ricostruire.

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