22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Gianarturo Ferrari

Il modo di affrontare l’ondata migratoria non è più un problema politico, è un problema culturale e finché non si affronta questo secondo sarà difficile risolvere il primo


L’Homo sapiens, cioè noi, è una specie irrequieta. E molto adattabile. Invece di starsene buona nella sua culla africana si è sparsa dovunque. Giunta all’estremo nord-est dell’Asia è passata sui ghiacci in Alaska e da lì in circa diecimila anni – un tempo brevissimo – attraverso tundre, praterie, deserti, foreste pluviali e vertiginose montagne è arrivato ai ghiacci opposti della Terra del Fuoco. Inseguiva più cibo e più spazio. Benessere e libertà, se vogliamo, proprio come gli odierni migranti, maldestramente definiti economici. Per quale altro motivo infatti si dovrebbe emigrare? Profughi, rifugiati, esuli non c’entrano, sono una faccenda diversa. Dunque la storia delle migrazioni è la storia dell’umanità, o la sua parte maggiore, come dovremmo ben sapere noi italiani che abbiamo smesso di migrare – a milioni – negli anni Cinquanta del secolo scorso. La presente ondata migratoria (non sarà l’ultima, mettiamoci il cuore in pace) ha ragioni chiare: la crescita della pressione demografica in Africa, dovuta anche, per grazia di Dio, al crollo della mortalità infantile. E il fatto che chiunque disponga di un telefonino può vedere con i propri occhi quanto si viva meglio nel mondo occidentale e segnatamente, nonostante tutte le nostre lamentazioni, in Europa. Ma se le ragioni sono chiare le soluzioni sono oscure: l’idea di bloccarli a casa loro richiede muraglie o cannoniere, quella di aspettare che in Africa si stia come in Europa apre orizzonti secolari. Comunque sia, si tratta sempre di soluzioni dell’hic et nunc: pratiche, amministrative, politiche. Importantissime certo, come si vede dagli effetti elettorali, ma che non toccano il nodo centrale: qual è l’atteggiamento giusto, la posizione ragionevole, degna di persone civili, rispettosa delle esigenze di tutti?
Non è più un problema politico, è un problema culturale e finché non si affronta questo secondo sarà difficile risolvere il primo. Ora il fatto davvero stupefacente è il silenzio tombale della cultura non solo italiana ma europea di fronte al tema che l’attualità ci spinge sotto gli occhi ogni giorno. Questa è una novità assoluta. Nel troppo deprecato secolo scorso la cultura è sempre stata legata, si è alimentata del rapporto con la realtà. Dall’intervento nella Prima guerra mondiale, alla nascita del comunismo, del fascismo, al nazismo, alla guerra fredda, alla decolonizzazione, al Vietnam, al terrorismo, al crollo dell’Unione sovietica, all’islamismo, la cultura europea si è furiosamente e spesso chiassosamente accapigliata su ogni spunto che l’attualità offrisse. Sbagliando, molte volte, identificandosi con la politica, tradendo la propria stessa ragion d’essere e giungendo, non di rado, a eccessi ridicoli. Sempre meglio però di questo mutismo inarticolato. Come se decenni di divagazioni deboli e liquide, di astrazioni strutturaliste, di melanconie nichiliste avessero finito per togliere all’Europa il suo maggior vanto, cioè la forza del suo pensiero, la capacità di guardare senza timori e senza pudori nel fondo delle cose. Oggi di fronte al problema dell’emigrazione la cultura europea gira la testa dall’altra parte, non vuole abbassarsi a questioni così spicciole, in realtà non sa che cosa dire. Certo, non è facile, ma quando mai ha affrontato prove facili? Il lato peggiore è che dopo tanto sgolarsi e sbracciarsi per cause spesso dubbie tace davanti a quel che la gente comune avverte più acutamente, si rifugia in giaculatorie per esorcizzare la paura di non saper rispondere. Forse mai nella storia recente si è aperto un abisso così profondo tra comune sentire ed elaborazione intellettuale. L’unica voce che ha risuonato è stata quella del cardinal Ravasi, il quale ha citato un versetto del Vangelo. Nulla da eccepire, per carità, ma forse l’orgogliosa cultura europea un ulteriore segno di vita avrebbe potuto darlo.

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