Fonte: Corriere della Sera
di Gilles Gressani, Mathéo Malik, Ramona Bloj
Tre giovani studiosi di politica internazionale, redattori della rivista «Le Grand Continent», intervistano il presidente francese all’Eliseo. «Siamo in un momento di frattura del capitalismo, che deve pensare alle diseguaglianze e al cambiamento climatico»
Il 2020 sta volgendo al termine. Tra la gestione immediata delle emergenze e la visione a lungo termine, qual è oggi la rotta da seguire?
«L’avete detto voi stessi: il 2020 è stato costellato di crisi. Quella, chiaramente, dell’epidemia di Covid-19 e quella del terrorismo, che negli ultimi mesi è tornato a colpire con grande forza in Europa, ma anche in Africa. Penso in particolare a quel terrorismo definito islamista, ma che in realtà è perpetrato in nome di un’ideologia che distorce una religione.
Per risolverle nel miglior modo possibile, dobbiamo collaborare. Non riusciremo a sconfiggere l’epidemia e questo virus se non collaboriamo. (…)
Oltre a ciò, in questo momento ritengo che un’ulteriore rotta da seguire sia anche l’importanza — e l’uno per me è complementare all’altro — di rafforzare e strutturare un’Europa politica. (…) Ciò presuppone che si prenda atto del fatto che gli ambiti della cooperazione multilaterale oggi sono diventati fragili, perché sono bloccati: non posso far altro che constatare che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oggi, non produce più soluzioni utili; siamo tutti corresponsabili quando alcuni diventano ostaggio delle crisi del multilateralismo, come l’OMS. (…)
Se cerco di guardare oltre il breve termine, direi quindi che dobbiamo avere due assi forti: ritrovare le modalità per una cooperazione internazionale utile che eviti la guerra, ma che consenta di rispondere alle sfide contemporanee; costruire un’Europa molto più forte, che possa far valere la sua forza, mantenendo i suoi principi, in uno scenario così rifondato».
Lei parla di rotta, proiettandosi verso il futuro, ma si può capire questo momento di transizione anche guardando indietro, verso il passato, per chiedersi che epoca si conclude nel 2020. È un’epoca iniziata nel 1989, nel 1945?
«È molto difficile da dire, perché non si sa se siamo in un momento in cui è possibile concettualizzare adeguatamente questo periodo. Vediamo che siamo di fronte ad una crisi del quadro multilaterale del 1945: una crisi della sua efficacia, ma, più grave a mio avviso, una crisi dell’universalità dei valori portati avanti dalle sue strutture. Questo è per me uno degli aspetti più gravi di quello che abbiamo vissuto negli ultimi tempi. Elementi come la dignità della persona umana, che erano intangibili e a cui aderivano fondamentalmente tutti i popoli delle Nazioni Unite, tutti i Paesi rappresentati, vengono ora messi in discussione, relativizzati. Il relativismo contemporaneo che sta emergendo segna davvero una frattura e fa il gioco di potenze che non sono a proprio agio nell’ambito dei diritti umani delle Nazioni Unite. Su questo tema è evidente il gioco portato avanti dalla Cina e dalla Russia, che promuovono un relativismo dei valori e dei principi. (…) E credo che siamo a un punto di rottura anche rispetto al post-1989. Le generazioni nate dopo il 1989 non hanno vissuto l’ultima grande lotta che ha strutturato la vita intellettuale occidentale e le nostre relazioni: l’anti-totalitarismo. (…)
Tutti questi elementi producono fratture molto profonde nella nostra vita, nella vita delle nostre società e nello spirito che è emerso in queste date di riferimento. Ed è per questo che voglio lanciare quello che potremmo chiamare il “Consenso di Parigi”, che però sarà il consenso di tutti, che consiste nel superare questi momenti storici importanti per mettere in discussione l’elemento di concretizzazione del cosiddetto Washington Consensus: diminuzione del ruolo dello Stato, privatizzazioni, riforme strutturali, apertura delle economie attraverso il commercio, finanziarizzazione delle nostre economie, il tutto all’interno di una logica piuttosto monolitica basata sulla creazione di profitti. (…)
Il funzionamento dell’economia di mercato centrata sulla finanza ha permesso l’innovazione e una via d’uscita dalla povertà in alcuni Paesi, ma ha aumentato le disuguaglianze nei nostri. Le nostre classi medie in particolare, e una parte delle nostre classi popolari, sono state la variabile di aggiustamento della globalizzazione; e questo è insostenibile. È insostenibile, e l’abbiamo indubbiamente sottovalutato. (…) Siamo in un momento di frattura del sistema capitalistico, che deve pensare allo stesso tempo alle disuguaglianze e al cambiamento climatico. A questo si aggiunge un fatto nuovo, ma che si sta strutturando in modo perverso: i social network e Internet. (…) L’ultimo punto di svolta è il cambiamento demografico, che spesso tendiamo a dimenticare. Abbiamo una popolazione che continua a crescere ad una velocità folle. (…) Non credo ci sia mai stato un periodo della storia che abbia concentrato così tanti elementi di frattura».
Con quali strumenti si costruisce un nuovo multilateralismo che prenda atto di questi sconvolgimenti?
«Tre anni fa, quando parlavo di sovranità europea o di autonomia strategica, sono stato preso per un pazzo, e queste idee erano ritenute capricci francesi. Siamo riusciti a far muovere le cose. In Europa queste idee si sono imposte. L’Europa della difesa, che credevamo impensabile, l’abbiamo realizzata. Avanziamo nel campo dell’autonomia tecnologica e strategica, mentre tutti erano rimasti sorpresi quando ho iniziato a parlare di sovranità sul 5G (…)».
Torniamo sulle parole dell’Europa geopolitica: quale definizione concreta c’è dietro a concetti come sovranità, autonomia strategica, Europa-potenza?
(…) «Penso che siamo un’area geografica coerente in termini di valori, in termini di interessi, e che è bene difenderla in sé. Siamo un’aggregazione di popoli e culture diverse. Non esiste una tale concentrazione di così tante lingue, culture e diversità in nessun altro spazio geografico. Eppure, qualcosa ci unisce. Del resto, sappiamo di essere europei quando usciamo dall’Europa. Sentiamo le nostre differenze quando siamo tra europei, ma proviamo nostalgia quando lasciamo l’Europa.
(…) Sono sicuro di una cosa: non siamo gli Stati Uniti d’America. Sono i nostri alleati storici, abbiamo a cuore come loro la libertà e i diritti umani, abbiamo dei legami profondi, ma abbiamo, per esempio, una preferenza per l’uguaglianza che non c’è negli Stati Uniti d’America. I nostri valori non sono esattamente gli stessi. Abbiamo un attaccamento alla socialdemocrazia, a una maggiore uguaglianza, e le nostre reazioni non sono le stesse. Credo anche che da noi la cultura sia più importante, molto di più. Infine, siamo proiettati in un altro immaginario, legato all’Africa, al Vicino e Medio Oriente, e abbiamo un’altra geografia, che può disallineare i nostri interessi. La nostra politica di vicinato con l’Africa, con il Vicino e Medio Oriente, con la Russia, non è una politica di vicinato per gli Stati Uniti d’America. È quindi insostenibile che la nostra politica internazionale dipenda da loro o che segua le loro orme. (…)
La domanda, per essere diretti, è questa: il cambiamento di amministrazione americana rallenterà le iniziative europee? Sono profondamente in disaccordo, per esempio, con l’editoriale su Politicofirmato dal Ministro della Difesa tedesco (Annegret Kramp-Karrenbauer, ndr). Penso che si tratti di un controsenso storico. Per fortuna, la Cancelliera non è sulla stessa linea, se ho capito bene. Ma gli Stati Uniti ci rispetteranno come alleati solo se rimarremo seri con noi stessi e se saremo sovrani con la nostra stessa difesa. Quindi penso che, al contrario, il cambiamento di amministrazione americana sia un’opportunità per continuare in modo totalmente pacifico e sereno quello che degli alleati devono capire: dobbiamo continuare a costruire la nostra autonomia per noi stessi, come gli Stati Uniti fanno per loro, e come la Cina fa per sé».
La Cina ha il progetto delle Nuove Vie della Seta, un sogno di futuro, qualcosa cosa che in Europa facciamo fatica a trovare. Si tratta di qualcosa che si rivolge alla dimensione interna? Verso una maggiore integrazione, un’economia più verde? Oppure, al contrario, è qualcosa che ha vocazione a diffondersi nel mondo? Qual è il sogno, il grande progetto europeo?
«È in atto una lotta positiva volta a fare dell’Europa la prima potenza educativa, sanitaria, digitale e verde. Queste sono le quattro grandi battaglie, che ci permetteranno di affrontare queste quattro grandi sfide. (…)
Ritengo che ci sia una seconda sfida: l’Europa deve riaccendere la fiaccola dei suoi valori. Questi valori vengono abbandonati ovunque. La lotta contro il terrorismo e l’islamismo radicale è una lotta europea, ed è una lotta alla nostra altezza: credo che, in fondo, la lotta contemporanea sia contro la barbarie e l’oscurantismo. (…) Il terzo grande progetto europeo è il cambiamento di prospettiva nei confronti dell’Africa e la reinvenzione dell’asse afro-europeo. È la lotta di una generazione, ma credo che sia fondamentale per noi». (…)
Una questione fondamentale nella Sua pratica, o per meglio dire, nella Sua dottrina delle relazioni internazionali, è che alla base esiste un principio di associazione di diverse entità — Stati, imprese, attori locali, associazioni. Sta mettendo in discussione il multilateralismo degli Stati per sostituirlo con qualcos’altro? E più concretamente: pensa che la questione della distribuzione dei vaccini porterà avanti questa dottrina?
«(…) Quando si tratta di armamenti, quando si tratta di grandi questioni geopolitiche, c’è bisogno degli Stati. Quello che dobbiamo riuscire a fare è creare coalizioni originali per emarginare coloro che fanno azione di blocco. (…) In secondo luogo, sulle grandi questioni dei cosiddetti beni comuni, le grandi questioni internazionali, in effetti il multilateralismo tra Stati non basta più. Sulle nuove tecnologie, è necessario coinvolgere piattaforme che si sono sviluppate al di fuori delle regole, anche perché ancora non ne esistevano, stavo per dire malgrado gli Stati, perlomeno con il tacito accordo degli Stati Uniti d’America. (…)
Quanto alla sanità, vedrete, ci sarà una diplomazia dei vaccini, il che significa che tutti vorranno sventolare la bandiera e dire: “sono io che l’ho scoperto”. Poi ci sarà una corsa sotto la pressione dell’opinione pubblica per poter dire il più rapidamente possibile “abbiamo il vaccino giusto”. Dovremo essere molto vigili a questo proposito. (…) Ma dietro a ciò, i negoziati che stiamo conducendo con gli Stati e le imprese sono un ottimo banco di prova di questo nuovo multilateralismo. In ogni caso, avere accesso mondiale al vaccino è l’idea di bene pubblico mondiale. Ciò significa che nessuno dei laboratori che svilupperanno il vaccino sarà in grado di bloccare l’accesso ad altri laboratori di produzione per i Paesi in via di sviluppo. Non so se vinceremo questa battaglia. Perché molto chiaramente non sono sicuro che tutti i paesi vogliano impegnarsi in questo. (…)
Ma questo è il nuovo multilateralismo. Bisogna constatarlo. Per molti Paesi, la strategia del fatto compiuto è diventata la nuova dottrina: la Russia con l’Ucraina; la Turchia con il Mediterraneo orientale o con l’Azerbaigian. Si tratta di strategie del fatto compiuto, il che significa che non hanno più paura di una regola internazionale. Quindi dobbiamo trovare dei meccanismi di aggiramento e accerchiarli».
Ha menzionato la questione climatica come una grande priorità. Il tema che si pone, come per il vaccino, è quello della sua politicizzazione. L’ambientalismo svolge ora un ruolo centrale nell’arena politica. Si definisce ecologista?
Sì, in realtà sono diventato ecologista. Lo rivendico e l’ho detto più volte. Penso che la lotta contro il cambiamento climatico e quella per la biodiversità sia centrale nelle scelte politiche che dobbiamo fare. (…) Allo stesso modo, prendiamo l’esempio di una famiglia francese, che ha fatto tutto quello che le è stato chiesto per trent’anni. Le è stato detto: “devi trovare un lavoro” — ha trovato un lavoro. Le abbiamo detto: “Devi comprare una casa” — ma una casa è troppo costosa nella grande città, così l’ha comprata a 40, 50, 60 chilometri dalla grande città. Le è stato detto: “Il modello del successo è avere ciascuno la propria auto” — ha comprato due auto. Le è stato detto: “Se siete una famiglia degna di questo nome, dovete crescere bene i vostri figli, devono andare a musica e poi al club sportivo”. Così, il sabato, facevano quattro viaggi per portare in giro i loro figli. A questa famiglia, poi dite: “Siete grandi inquinatori, avete una casa mal isolata, avete una macchina e la guidate per 80, 100, 150 chilometri. Il nuovo mondo non vi ama”. La gente impazzisce! Dicono: “Ma ho fatto tutto bene! Compreso il fatto che il governo francese per decenni mi ha chiesto di comprare il diesel, e io ho comprato il diesel!”.
Ho fatto l’esempio di questa famiglia perché è esattamente così che mi hanno visto alla fine del 2018 (l’inizio della rivolta dei gilet gialli, ndr): come il tizio che all’improvviso ha detto, “tutto quello che fate ogni giorno, seguendo i nostri consigli, ora diventa di colpo cattivo”. Ma mi sono reso conto che abbiamo commesso un errore. Dobbiamo coinvolgere le nostre società in questo cambiamento. Quando dicevamo “cambieremo le cose in meglio”, come il commercio, hanno perso il lavoro. Se ora diciamo loro: “la transizione climatica è una cosa veramente buona perché i vostri figli potranno respirare, ma sarete comunque voi a pagare il prezzo perché saranno il vostro lavoro e la vostra vita a cambiare. Ma non la vita dei potenti, perché loro vivono nei quartieri alti, non guidano mai un’auto e potranno continuare a prendere l’aereo per andare dall’altra parte del mondo”, non funzionerà».
La nostra ultima domanda riguarda la sua visione della teoria dello Stato. La sovranità vestfaliana (degli Stati nazione, ndr) può coesistere con l’emergenza climatica?
Sì, perché non ho trovato un sistema migliore di quello della sovranità vestfaliana. Se ciò consiste nel dire che un popolo, in seno ad una nazione, decide di scegliere i suoi leader e di avere persone che votino per le sue leggi, penso che sia perfettamente compatibile, chi deciderebbe, altrimenti? (…) E rispetto a quello che dicevate, in effetti molti sostengono, “sciogliamo la sovranità nazionale, lasciamo che siano le grandi imprese a decidere il corso del mondo”. Altri, invece, dicono: “la sovranità popolare liberamente espressa è meno efficace di un dittatore illuminato o della legge di Dio!”. Infatti, oggi assistiamo al ritorno delle teocrazie e dei sistemi autoritari. Se scattiamo una foto del mondo di oggi e lo paragoniamo a quello di quindici anni fa, è molto diverso. La sovranità democratica popolare è un tesoro da custodire gelosamente».