Fonte: Corriere della Sera
Non bisogna aver paura di mandare i nostri ragazzi a fare esperienze dell’Europa
di Beppe Severgnini
I ritratti sorridenti delle ragazze di Tarragona sono insostenibili. La morte è sempre inspiegabile; la morte giovane è inaccettabile. Perché loro? Perché il destino doveva salire a bordo di quel pullman, travestito da autista assonnato? Cinquantasette studenti Erasmus di ritorno da una festa popolare a Valencia, la prima notte di primavera: la fotografia perfetta della bellezza e della gioventù d’Europa. Il mezzo su cui viaggiano invade la corsia opposta, si scontra con un’auto. Tredici morte, tra cui sette italiane. Francesca, Serena, Lucrezia, Valentina, Elena, Elisa, un’altra Elisa. La mamma di un’altra ragazza, Annalisa, racconta che la figlia ha perso tutte le amiche. È grave in ospedale, ancora non lo sa. La reazione istintiva è associare questi viaggi, questa età e queste esperienze con il pericolo. Non leggerete editoriali in proposito; nessuno andrà in televisione a dire «Ragazzi, state a casa!». Ma il continente spaventato, ieri, ha aggiunto una paura nuova. L’aereo della Germanwings, il concerto del Bataclan, ora l’autobus di Tarragona. È come se il sogno europeo perdesse, uno dopo l’altro, i suoi colori. Restano il mare nero e le facce dietro le frontiere chiuse.
Le testimonianze dei genitori delle vittime strappano il cuore: aspettavano una laurea, le aspettano in un obitorio. Qualcuno, davanti allo strazio, lascerà intendere che sia più saggio e sicuro non muoversi, non andare, non sperimentare. Non è vero: non lo è mai stato. La cronaca italiana lo dimostra. I pericoli sono dovunque: spesso vicino a casa, talvolta addirittura dentro casa. Non è rinchiudendole che proteggiamo le persone cui vogliamo bene.
Siamo circondati da allarmisti interessati. La tragedia di Tarragona, se la nostra reazione non sarà pronta, rischia di diventare il simbolo di una gioventù irresponsabile, superficiale, disposta a correre rischi inutili. Non è così, ovviamente. Su quell’autobus potevamo esserci noi, trent’anni o quarant’anni fa; oggi ci sono i nostri figli e nipoti, e dobbiamo lasciarli andare.
Una delle mie molte nipoti, Ilaria, romana, 24 anni, studentessa di psicologia, sta finendo lo scambio Erasmus a Santiago di Compostela, in Galizia. Sappiamo che viaggia, gira, si sposta per la Spagna. Certo: ci siamo preoccupati, in famiglia. L’abbiamo chiamata, e quando abbiamo saputo che era lontana da quella strada catalana abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Ma non abbiamo mai pensato — e non penseremo mai — che l’esperienza all’estero la metta in pericolo. Pensiamo invece che l’abbia migliorata e maturata.
Il programma Erasmus è nato nel 1987, ha quasi trent’anni. Tre milioni di giovani europei hanno cambiato università, residenza, abitudini, lingua. Si sono innamorati e hanno incontrato nuovi amici. Hanno imparato la categoria della distanza, che solo il primo grande viaggio insegna. Hanno appreso la lezione della tolleranza: persone diverse in posti diversi fanno cose diverse, e va bene così. Gli investimenti per Erasmus sono, in assoluto, i soldi meglio spesi dall’Unione Europea. Il programma non crea politiche europee, finanziamenti europei, garanzie europee. Crea europei — sostantivo. È diverso e più importante.
Non è facile trasformare il cordoglio in convinzione. Ma il dolore è un formidabile fertilizzante. Se volessimo rendere omaggio alle ragazze su quell’autobus — a chi è morto, a chi è ferito, a tutti gli altri che quella notte di marzo non la dimenticheranno mai — dovremmo costruire l’Europa come la vogliono: mescolata, solidale, orgogliosa e generosa. Dovremmo aprirci, non chiuderci. Sognare, non spaventarci. Sognare, insieme ai nostri figli e nipoti, un futuro condiviso e migliore. Facciamolo in nome delle vittime di Tarragona. Facciamolo per rispetto dei ragazzi che siamo stati.