22 Novembre 2024

Ritardi, code, rabbia. Il presidente accusa i «provocatori» che protestano per la lentezza dei soccorsi

«Andate anche voi verso Antakya (Antiochia, ndr)?». Si illuminano di speranza gli occhi di Murat Angay, 52 anni, mentre sente nominare nella hall dell’hotel la sua città. Nelle macerie di una delle città più colpite dal sisma, ci sono suo figlio Bahetan, 29 anni e sua moglie Makbuli, di 25. E Murat deve correre per arrivarci.
La strada da Adana, l’hub dei soccorsi, sembra corta. Ma non lo è dopo un sisma che ha ucciso oltre 20 mila persone tra Siria e Turchia, come riporta Bno News. Crepe nell’asfalto, mezzi di soccorso imbottigliati nel traffico che non riescono a passare, folle che assaltano i camion della protezione civile, il suono incessante delle sirene. Non c’è acqua, non c’è connessione Internet e non c’è luce dove la terra ha tremato. Mancano anche i sacchi per i corpi, dicono i soccorritori. Solo per fare benzina ci vuole un’ora, scarseggia già il carburante. Murat inizia a raccontare. «Sono partito appena saputo del terremoto dall’Olanda, dove vivo. Anche mio figlio ha passaporto olandese. Ma ha scelto di rimanere nella nostra città di origine almeno finché sua moglie non ottiene il visto». Si ferma, trattiene il respiro. «Sto parlando al presente….ma forse». L’auto riparte ma il gasolio è di cattiva qualità. Lungo la strada anche il fumo del porto di Iskenderun, dove bruciano ancora i container, sale dalla costa. Difficile non pensare al porto di Odessa. Sarà solo in serata che verrà estinto l’incendio.
Sembra la guerra. È il terremoto. Murat guida. E racconta. E piange. E risponde alle centinaia di telefonate e messaggi. «Mio figlio è uno studente di tecnologia. Un anno fa è uscito di prigione. Lo hanno accusato di far parte del Feto». È il movimento che fa capo al religioso Fethullah Gülen, lo stesso che, insieme al Pkk, è nemico giurato del Sultano, moneta di scambio con Svezia e Finlandia per l’ammissione nella Nato. «Ma lui non ha niente a che fare con quelle cose». Si morde le labbra Murat mentre pensa a quel passaporto olandese che poteva salvare Bahetan.«Quel palazzo dove vivevano è crollato perché era come tutto il resto, da queste parti. Era fatto male».
Intanto il presidente Recep Tayyip Erdogan fa il giro delle città colpite: Kahramanmaras, Hatay. Fa mea culpa per i ritardi nei soccorsi dopo le critiche in rete. «Inizialmente ci sono stati problemi negli aeroporti e sulle strade, ma oggi le cose stanno diventando più facili e domani sarà ancora più facile», afferma. Ma poi si giustifica: impossibile prepararsi ad una catastrofe del genere e punta il dito contro i «provocatori», proprio mentre i giornalisti turchi segnalano che Twitter è di nuovo irraggiungibile nel Paese.
La rabbia monta. Anche per una «tassa sui terremoti» introdotta dal governo dopo il terremoto nel 1999 che ha ucciso più di 17 mila persone. Oltre 4,3 miliardi di euro, che avrebbero dovuto essere spesi per la prevenzione dei disastri e lo sviluppo dei servizi di emergenza. E montano le polemiche per i periodici «condoni edilizi, che offrono l’esenzione legale a quelle strutture costruite senza i certificati di sicurezza. «Impossibile prepararsi, certo», dicono a mezza bocca i camionisti bloccati in coda.
Ottenere clemenza non si può. Nemmeno da madre natura. Scendono le temperature. La minima di Gaziantep segna -7 gradi, il vento dalle montagne soffia gelido mentre tutti dormono fuori nelle tende o in automobile. Perfino l’Ucraina stravolta dalla guerra ha inviato una squadra di soccorritori. Ma non basta. Non basta mai. «Il tempo per trovare i vivi sta ormai per scadere», dicono i White Helmets dall’altra parte del confine, che di tragedie e salvataggi estremi se ne intendono.
Nel villaggio di Serynol, la protezione civile turca, l’Adef, porta un camion di aiuti. Sono tende da montare, pesantissime da spostare. Tra quanti aiutano a scaricarle c’è Amed. È arrivato da Hama dieci anni fa, in fuga dalla guerra siriana. Oggi ha vent’anni. «Qui sto bene. Sono al sicuro», racconta mentre alle sue spalle un’ambulanza rischia di investire un gruppo di ragazzi. «Mio fratello fa il giornalista qui in Turchia. Io sono un meccanico, se avete bisogno di aiuto con l’automobile sono a disposizione». Ma a Murat non importa che il motore dell’auto stia per fondere. Si va avanti. Bisogna correre, Bahetan non ha più tempo. Nessuno ha tempo.
È quasi tramontato il sole quando Murat raggiunge la sua Antakya. Non c’è più niente. Era Antiochia, fondata da uno dei generali di Alessandro Magno. Ora è solo polvere, quello che resta della capitale della provincia di Hatay. Arriva di fronte al palazzone bianco e rosso ora cumulo di polvere, cade in ginocchio sull’asfalto. Quaranta piani che non ci sono più. Bahetan e Makbuli vivevano all’undicesimo. Gli occhi si spalancano sull’orrore. «È incredibile, è incredibile», ripete con il fiato che si rompe in gola. Poi di nuovo le lacrime. Il suo maggiore di cinque figli è lì sotto. «Aiutatemi, aiutatelo, vi supplico». E la terra trema ancora una volta. L’ennesima.

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