Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Sarebbe da irresponsabili pensare di reagire allo smacco parlamentare di ieri con una forzatura che porti al voto anticipato. Se prima il Quirinale poteva apparire quasi rassegnato a concedere le elezioni in autunno davanti a una riforma del sistema condivisa, ora le sue perplessità sono destinate a riaffiorare, moltiplicate. È in crisi il patto tra i quattro maggiori partiti in Parlamento, che dovevano consegnare una nuova legge chiedendo lo scioglimento delle Camere come una conseguenza quasi automatica. L’accordo si è rotto. Alcune forze sono decise comunque a procedere, come Forza Italia e i centristi. Altre, M5S e Lega in testa, chiedono di votare subito. E nel Pd che definisce «morta» la riforma serpeggia la tentazione di chiedere a Sergio Mattarella le elezioni: sebbene per ora venga repressa. Almeno fino alle Comunali di domenica, Matteo Renzi ha deciso di non sbilanciarsi. Dopo la riunione della segreteria di ieri, i dem hanno rinviato qualunque decisione alla prossima settimana. La spaccatura, tuttavia, potrebbe presto mettere a nudo il tentativo di usare il sistema elettorale come scorciatoia e pretesto per le urne; e dunque la volontà di insistere per un decreto del governo che porti al voto in autunno usando le sentenze della Consulta come bussola. Prima l’idea era di votare perché la riforma era fatta; ora, perché risulta impossibile. Eppure, si tratta di uno scenario più azzardato di qualche giorno fa.
Si aprirebbe il capitolo assai delicato dei rapporti tra il partito di maggioranza e il «suo» capo dello Stato. Già nelle settimane passate, Mattarella aveva dovuto ascoltare una trattativa tra le forze politiche che fissava a priori la data del voto: quasi le competenze del presidente della Repubblica potessero essere ignorate o addirittura umiliate. La risposta è stata di aspettare che la riforma prendesse corpo, prima di esprimere la sua opinione e far valere le sue prerogative. Dopo quanto è accaduto, i margini di manovra del capo dello Stato aumentano. Ed è nota la sua determinazione a vedere approvato un sistema elettorale in grado di scongiurare l’ingovernabilità. Mattarella possibilmente vorrebbe una soluzione in tempi brevi, e ampiamente condivisa: per questo ha seguito con attenzione e speranza l’intesa Pd-M5S-FI-Lega. Ma non vuole lasciare in sospeso la legge di Stabilità: il suo assillo è mettere in sicurezza i conti pubblici. Per questo la preferenza era e rimane per una legislatura fino alla scadenza naturale del 2018. Da ieri, in teoria, questa prospettiva è meno improbabile. «Senza una legge omogenea per Camera e Senato e adeguata — constata Silvio Berlusconi — le elezioni sono molto difficili». È un invito a Renzi, soprattutto, a mantenere la freddezza, derubricando il «sì» all’emendamento di FI sul Trentino Alto Adige a «incidente».
Opera di persuasione non facile. Dopo avere imposto il ritorno del testo in commissione, il Pd appare incline a un disimpegno risentito. Si ha l’impressione che pensi a un ritiro dalle trattative sulla riforma dopo il voto alla Camera; e che sia tentato di abbattere l’esecutivo di Paolo Gentiloni, con la tesi che questo Parlamento e il governo non sono più in grado di andare avanti: non solo in materia elettorale ma per gli altri provvedimenti in sospeso, nonostante più di un ministro e i vertici istituzionali sottolineino i risultati incoraggianti raggiunti da Palazzo Chigi. Il paradosso è che, più la cerchia renziana mostra di volere far saltare tutto, più i suoi alleati-coltelli si mostreranno intenzionati a sostenere Gentiloni: con l’aiuto magari di qualche settore dell’opposizione. D’altronde, la vicenda dei «franchi tiratori» non può essere solo condannata: va analizzata per capire i motivi che l’hanno favorita e evitare che si ripeta. Si può anche puntare il dito sull’«irresponsabilità» dei parlamentari di Beppe Grillo e sulla loro «inaffidabilità»: accusa che i Cinque Stelle ribaltano accusando il Partito democratico di avere almeno cento «franchi tiratori». Il fatto è che alla Camera la maggioranza può contare comunque su numeri schiaccianti.
A essere sospettato di agguati è sempre stato semmai il Senato, con le sue percentuali traballanti. Se già a Montecitorio l’accordo a quattro è stato affondato, significa che esistono questioni politiche serie: in primo luogo la sensazione di un asse di governo in incubazione tra il leader del Pd, Matteo Renzi, e quello di FI, Berlusconi, proiettato nel futuro, che Grillo non poteva assecondare senza perdere un pezzo di M5S. In parallelo si conferma un problema di tenuta di gruppi parlamentari che non hanno più molto da perdere. E dunque rifiutano la disciplina di partito: perfino tra i democratici che apparivano granitici dopo la rielezione di Renzi a segretario, mentre non lo sono. Forse, prendere atto di essere non il primattore ma solo uno dei protagonisti di questa fase, è la condizione per evitare altri schiaffi al Pd, e guai politici e finanziari al Paese. Non andrebbe mai dimenticata la sconfitta al referendum istituzionale del 4 dicembre scorso. È un precedente che pesa e sarà fatto pesare: soprattutto nei passaggi decisivi.