Fonte: Corriere della Sera
Per avere un permesso di soggiorno bastano conoscenze linguistiche minime. E al Nord la percentuale di bocciati è molto più alta che al Sud
Verbo finire, futuro. «La ghèra in Libia finirà». «Ma nooo! La gùera in Libia finirò!». Classe A2, scuola dei padri Comboniani a due passi dal Colosseo, rete del volontariato. Sui banchi il libro di testo Italiano facile facile. Per sperare basta chiudere gli occhi, ma per dare alla speranza le parole giuste ci vuole pazienza. Mahmud ne ha ormai poca, è stufo, «that’s confusing, baby», questa giostra lo confonde. Quarant’anni scarsi, dentista a un passo dalla specializzazione maxillofacciale, anglofono, è scappato due anni fa da Tripoli, doveva fermarsi tre mesi a Roma ed è ancora qui, arrangiandosi come può. La sua compagna di banco Augustine è etiope, semianalfabeta, appena assunta come colf all’Eur, in nero: dice «neve» per «nave», scarabocchia «barcha» per barca.
I test e i livelli
Sapesse l’italiano, Mahmud potrebbe farle da maestro, invece per entrambi la nostra lingua è una misteriosa lotteria: con un test d’accesso i cui risultati cambiano drasticamente a seconda che lo si sostenga in Italia del Nord o del Sud, comunque di livello troppo basso per gli standard europei e, in fondo, derivato dalla disorganizzazione della nostra offerta formativa. Per il livello A2 — necessario a ottenere il permesso di soggiorno di almeno un anno (previo accordo di integrazione) e addirittura sufficiente per il permesso Ue di «lungo periodo» — basta… destreggiarsi con frasi tipo «sono un ragazzo», «ho mangiato il gelato» e con brevi testi del genere «lascia un messaggio a tua moglie prima di uscire», mentre tedeschi e inglesi, norvegesi e austriaci impongono test di livello B1 o (persino) B2 e dalle 400 alle 900 ore di corsi quasi sempre obbligatori che fruttano alla fine dignità e autonomia. Noialtri poco chiediamo e poco diamo: la semplice sopravvivenza. Come spiegava qualche tempo fa il docente milanese Ennio Codini così si finisce confinati «a raccogliere pomodori o a lavorare in una stalla».
Il parere del Miur
«L’A2 è un dispetto che noi facciamo a chi arriva, sottintende l’idea di fondo che la loro prima e anche la loro seconda generazione debbano restare a livelli bassi, in ruoli subalterni», sostiene Fiorella Farinelli, già assessora rutelliana e dirigente del Miur con Fioroni ministro, ora volontaria della Rete Scuolemigranti e maestra di Mahmud, Augustine e qualche altra dozzina di studenti in cammino verso la speranza. Il cammino è accidentato, le differenze tra compagni di viaggio assai vistose ovunque. A due passi dalla stazione Termini di Roma, in cima a quattro rampe di scale dell’istituto tecnico Duca degli Abruzzi di via Palestro, praticamente in piccionaia, s’arriva all’aula di uno dei cinque Cpia della capitale (la sigla sta per Centro per l’istruzione degli adulti, ultima creazione della nostra burocrazia e delle nuove normative). La classe A2 della maestra Rita Prudente oggi impara dalle canzoni, studia La gatta, di «Ghino» Paoli. L’effetto è da Nazioni Unite: due siriane velate, quattro ragazzi del Burkina Faso, due ucraine, una cinese, una etiope; età tra i venti e i quaranta. Irina è così brava che certe mattine frequenta anche il corso B1, Sahid così balengo che a malapena riesce a scrivere il proprio nome in tremolante stampatello, litiga con Jamal per stabilire se in Burkina ci siano o no le giraffe, s’incanta a rigirare un biglietto di jackpot che tiene sul banco come una promessa. In mezzo c’è un mondo di parole sospese e accenti smozzicati, che la maestra Rita prova a incanalare con passione. Alle pareti cartelli di grammatica, verbi e ricette, etniche già nell’enunciazione(«Riso cinese: prendamo la pentola elettrica per bollare il riso»).
Le ore per l’istruzione
Naturalmente un Cpia è molte cose, «la nostra missione è portarli al diploma», dice la preside di via Palestro, Gianna Renzini. Ma, naturalmente, a questi «ragazzi» basta molto meno; i livelli di dispersione, in certi Cpia di Milano per esempio, arrivano anche al 50 per cento: casa, lavoro, fatiche quotidiane premono, molti mollano a metà e poi ricompaiono per il test. «Con l’A2 ci si accontenta di poco, ma è la legge, forse volevano volare basso e si stanno attrezzando», sorride amara la preside Renzini. L’Europa in cinque anni ci ha dato quasi settanta milioni… «Infatti i soldi non sono pochi, dovrebbero essere più controllati e coordinati, con le risorse che ho, non troverei difficoltà a passare al livello B1». Semplificando, i percorsi sono tre: Cpia, scuole del volontariato, esame diretto. Evita il test solo chi frequenta per intero (o quasi: una sessantina di ore circa su 80) il corso al Cpia (ci sarebbero anche dieci ore di educazione civica, forse un po’ pochine per spiegare lo Stato di diritto a uno che magari viene da terre di sharia). I Cpia hanno protocolli di collaborazione con la rete del volontariato e fanno i test per conto delle prefetture (il prossimo sarà il 7 marzo). I test sembrano tuttavia appena un po’ meno affidabili della ruota della fortuna, ed è questo il punto più critico di tutto il sistema. Come sempre, i numeri raccontano meglio di mille parole una realtà sconcertante. Su un totale di 601 mila esaminati in cinque anni (le richieste erano oltre 800 mila), i bocciati sono ventuno ogni cento: percentuale già molto alta per un livello scadente come l’A2, che tuttavia si spiega in parte perché molti tentano l’accesso diretto all’esame saltando i corsi cui magari non hanno tempo e modo di partecipare. Milano è in linea con la media nazionale di bocciature, con un 21,4 per cento. Roma, col 13, ben al di sotto. Ma è l’Italia di fronte ai migranti che appare spaccata secondo la solita faglia: di qua il Centrosud, di là il Nord. Se a Napoli i bocciati sono il 10 per cento, a Reggio Calabria il 15 e a Palermo il 12, a Enna sono assenti del tutto (i pochi candidati, 206, sono stati tutti promossi). Risalendo la Penisola cominciano i dolori: Modena ha il 25 per cento di bocciati, Brescia il 27, Bolzano il 28, Padova il 29, le medie del Nord sono quasi tutte lì allineate.
Le differenze tra Nord e Sud
Dunque, o i migranti del Sud sono tutti fenomeni e quelli del Nord tutti somari, oppure c’è qualcosa che non quadra nelle valutazioni e nei test, che fanno, sì, tutti riferimento ai sillabi europei per il livello di sopravvivenza (l’A2) ma poi variano da Regione a Regione, affidati alla buona volontà e alla professionalità di chi li prepara. «Molto spesso i test sono fatti coi piedi», sbuffa Fiorella Farinelli: «E certo è un bel paradosso. Al Nord, dove gli immigrati sono di più, sono più stabili e fanno più impresa, magari il sistema prende le cose più sul serio, o magari si producono veleni. Dopo i primi test so per certo che alcuni uffici scolastici del Nord hanno dato indicazione di stringere i freni. Però altrove sospetto una cultura sociale prevalente molto porosa. Sa, al Sud gli studenti peggiori per l’Ocse o per Invalsi prendono voti di maturità più alti rispetto ai coetanei del Veneto e della Lombardia». La diatriba può essere infinita. Ma ci vorrebbe ben altro per cambiare la vita a uno come Mahmud. Al pianterreno del loro palazzotto in zona Colosseo, i padri Comboniani hanno aperto persino un ambulatorio odontoiatrico, forti di una decina di dentisti volontari: dentisti come lui. Quello sì che gliela cambierebbe, la vita. Verbo lavorare, futuro: forse un giorno lavorerò anch’io.