22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Francesco Giavazzi

I contribuenti hanno già pagato. Ora i commissari facciano in fretta


Ogni ora di volo Alitalia perde 50 mila euro: più vola, più perde. Negli ultimi tre esercizi ha perso 400 milioni di euro l’anno; quest’anno si appresta a perderne altri 100. Mentre il mercato italiano del traffico aereo si apriva alla concorrenza, la quota di Alitalia scendeva in pochi anni dall’80 al 50 per cento. Sul mercato internazionale la compagnia è divenuta pressoché irrilevante: come potrebbe fare di più con solo 27 aerei a lungo raggio, contro i 110 di Air France e i 260 di British Airways?».
Sembra una fotografia scattata oggi. Invece è l’editoriale del Corriere del 27 febbraio 2004, 13 anni fa. Da allora il numero degli aerei a lungo raggio si è ridotto di 3 unità e si sono succeduti due nuovi azionisti: prima un gruppo di imprenditori italiani, poi Etihad. Entrambi i tentativi si sono conclusi con un fallimento. Ora, per evitarne un terzo, lo Stato (dopo che negli anni ha versato nelle casse di Alitalia 7,4 miliardi di euro, solo due in meno di quanto è costato il bonus degli 80 euro) ha concesso un ulteriore prestito di 600 milioni che dovrebbe consentire agli aerei di volare fino al 31 ottobre.
È inutile illudersi: il primo novembre ci ritroveremo punto e a capo. Alitalia non ha futuro perché è il suo «modello di business» che non funziona.
In Europa ci sono tre compagnie di grandi dimensioni (British-Iberia, Lufthansa-Swiss-Austrian e Air France-Klm) e moltissime compagnie low cost. Alitalia ha perso l’occasione per partecipare al gruppo dei grandi quando, nel 2008, Silvio Berlusconi e Corrado Passera decisero di non procedere nella trattativa con Air France-Klm avviata dal governo Prodi, credendo di poter fare da soli. Ma Alitalia non può neppure trasformarsi in una compagnia low cost, un mercato ormai saturo e dai costi poco comparabili.
D’altronde dobbiamo chiederci a che serve una compagnia nazionale, anche qualora riuscissimo a farla rinascere. A Trapani Ryanair da sola porta un milione e mezzo di turisti l’anno: erano 300mila dieci anni fa prima che arrivasse la compagnia irlandese. A Bergamo un nugolo di compagnie low cost porta quasi 12 milioni di passeggeri l’anno, facendone il terzo aeroporto italiano dietro Fiumicino e Malpensa ma davanti a Venezia e a Linate. Sia a Bergamo che nelle isole della Sicilia occidentale il turismo è esploso grazie a questi voli. Alitalia in tanti anni a Trapani non ha mai pensato di andarci, tranne per un collegamento «di servizio» con Pantelleria.
Né la scomparsa di Alitalia ci farebbe perdere turisti cinesi o giapponesi: le loro compagnie ormai offrono numerosi collegamenti diretti con Roma, Milano e Venezia. Certo, sarebbe più elegante farli arrivare su un aereo italiano con personale che offre cibo italiano. Come alle imprese italiane sarebbe servita una compagnia di bandiera non solo biglietto da visita ma anche infrastruttura logistica per un Paese che delle esportazioni ha fatto una vocazione. Ma ormai è troppo tardi.
Si dovrebbe fare quello che alla politica e ai governi non è mai piaciuto: dire la verità. Alitalia è al capolinea. Proteggiamo i 12mila dipendenti trattandoli come trattiamo quelli di tante altre imprese che purtroppo falliscono: non peggio, ma neppure meglio. O si pensa che tre commissari, senza un capo azienda, senza un azionista e soprattutto senza obiettivi industriali possano riuscire nel miracolo? Facciano quello che devono. E il più velocemente possibile; liquidazione o vendita che sia. Ai 7,4 miliardi già pagati dai contribuenti oggi si sono aggiunti altri 600 milioni. Non vorremmo trovarci fra qualche mese a discutere di una addizionale Alitalia.

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