25 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera


di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi


I dipendenti di Alitalia (circa 12 mila) hanno rigettato con un referendum il piano di risanamento della compagnia. Piano varato dagli azionisti, con il consenso delle banche creditrici, dei sindacati e del governo che si era mosso, tra l’altro, per stabilire una garanzia pubblica di 300 milioni al progetto di rilancio della compagnia; oltre, ovviamente, agli ammortizzatori sociali per i dipendenti che si sarebbero trovati a perdere il lavoro. Un progetto, come spiegava Daniele Manca sul Corriere di ieri, che non era certo draconiano per i dipendenti che, va detto, non sono i soli responsabili del disastro. È chiaro, per quanto non esplicitato, che cosa vorrebbero quanti hanno votato no al referendum: che Alitalia venga nazionalizzata, trasferendo così, ancora una volta, il conto dell’insolvenza ai contribuenti. Incuranti del fatto che Alitalia, sia già costata alla collettività qualcosa come 7,5 miliardi di euro. A cominciare dai costi di quella mancata vendita nel 2008 ad Air France in nome dell’italianità voluta dal centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Se fosse andata diversamente, oggi forse non saremmo in questa situazione. Ma il passato non si può cambiare. Se si crede che Alitalia vada e possa essere mantenuta in vita, si prenda il referendum per quello che è: una indicazione, ma nulla di più. Azionisti, creditori, management e governo, se ritengono il piano efficace, devono mandarlo avanti, per motivi che sono fondamentali anche per il funzionamento di una democrazia.
Il voto dei dipendenti di Alitalia è un ricatto alla collettività. Se qualche migliaio di cittadini che finora ha goduto anche di privilegi o comunque sono stati ben protetti, può bloccare un progetto che potrebbe risolvere un problema che, a torto o ragione, ha a che fare con benefici e costi per la collettività, l’essenza stessa della democrazia ne soffre. Se il piano si blocca, Alitalia o fallisce o viene salvata dal contribuente. In entrambi i casi vi sono costi per tutti noi. Ma alla collettività non si chiede un parere, lo si chiede solo ai 12 mila dipendenti di Alitalia. Certo, per ogni contribuente i costi aggiuntivi di un ennesimo salvataggio non sarebbero molto alti perché i cittadini sono tanti. Ma Alitalia non è la sola azienda in difficoltà. Continuando a far pagare ai cittadini questo o quel salvataggio non si fa altro che aumentare il peso fiscale (che dovrebbe invece diminuire per favorire la crescita), oltre a tenere in piedi imprese evidentemente non competitive.
È un fenomeno conosciuto come il problema dei benefici ristretti e dei costi diffusi. Ovvero una categoria piccola chiede dei benefici (i soldi dei contribuenti) e, dato che vi tiene molto, preme sulla collettività con minacce di scioperi, referendum, se la collettività non si inchina alle sue richieste. Con la differenza che i contribuenti sono tanti ma non organizzati e non sanno come opporsi a questo o quel provvedimento che aumenta questa o quella tassa per finanziare aiuti a una piccola categoria che, nel caso in questione, fornisce servizi in modo inefficiente vista la sua crisi. Se piccoli gruppi di cittadini possono decidere su progetti di interesse generale la democrazia si blocca. È vero che se ad alcuni cittadini vengono chiesti sacrifici per la collettività, essi vanno in qualche modo compensati. Ma i dipendenti di Alitalia lo sono già stati e lo saranno, se il piano andrà avanti. Ora si tratta di salvaguardare i contribuenti e gli utenti, evitando i risultati di una pessima idea (tranne che per i concorrenti), che ha affidato a un referendum le sorti dell’Alitalia.

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