Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Franchi
ll campionato politico è in apparenza regolare ma senza squadre e società riconoscibili per i loro colori, giocatori, allenatori: il rischio confusione è alto
Non è chiaro quando, non è chiaro come. E soprattutto non è chiaro perché, secondo quale logica, in quale prospettiva. È su elezioni anticipate a scadenza il più possibile ravvicinata, però, che Renzi punta le sue carte. Di questo tocca parlare. Prima di tutto per cercare di capire se è un dio della politica a illuminarlo, o un qualche demone lo accechi. Un tempo, l’unico partito che, a ogni crisi di governo, rivendicava immancabilmente lo scioglimento delle Camere era il Msi. E la cosa aveva un senso. Esclusi, almeno ufficialmente, dai grandi giochi, i missini facevano propaganda, sperando, nel migliore dei casi, di guadagnare qualche voto e di condizionare da destra gli equilibri politici. Ha un senso pure, per venire all’attualità, che Grillo, Salvini e Meloni vogliano votare subito: sanno bene di avere il vento in poppa, e garantire la governabilità non è, almeno per il momento, affar loro.
Molto diverso è il caso di Renzi
Non è più presidente del Consiglio, ma resta il segretario del principale partito italiano e l’azionista di (grandissima) maggioranza di un ministero guidato da un suo storico sostenitore, assediato da guai e problemi di ogni sorta. Si sarebbe potuto capire un Renzi intenzionato a farsi incoronare in tutta fretta dal popolo sovrano dopo aver vinto il referendum e aver incassato il sì, o almeno il ni, della Consulta all’Italicum. Le cose però sono andate come tutti sanno, molto diversamente. E dunque il Renzi elettoralista lo si capisce molto meno. Il suo Pd è, si dice, un partito a vocazione maggioritaria. Ma una vocazione maggioritaria può, anzi, deve essere nutrita in un sistema per l’appunto maggioritario, bipolare o meglio ancora bipartitico, del tipo di quello invocato, nell’ormai lontano 2008, da Walter Veltroni nel citatissimo discorso del Lingotto, e poco dopo, di rimbalzo, da Silvio Berlusconi nel non meno celebre discorso del predellino. Coltivarla era già diventato molto più difficile cinque anni dopo, quando le elezioni politiche ci consegnarono un’Italia divisa non più in due, centrosinistra contro centrodestra, ma in partes tres, come la Gallia di Cesare, per via dell’irruzione della scena del M5S, infinitamente più che un terzo incomodo. Riproporla oggi, quando la Corte costituzionale ci ha riconsegnato di fatto una legge elettorale proporzionale che resterà tale anche se le Camere ci rimetteranno mano, è letteralmente insensato. E’ molto difficile, per non dire impossibile.
Ma le elezioni a stretto giro di posta che tanto vuole, Renzi potrebbe anche vincerle. Non certo, però, con quel 40% indicato dal segretario a Rimini (il 40% delle europee e dei sì al referendum), che gli darebbe in dote il premio di maggioranza alla Camera: questa è pura propaganda, e nemmeno delle migliori. Potrebbe diventare, piuttosto, il partito di maggioranza, sì, ma relativa, obbligato quindi, volente o nolente, a trovare intese più vaste e a cercare supporti più significativi di quelli che potrebbero fornirgli Angelino Alfano e Denis Verdini: in poche parole, a contrarre alleanza, sempre che l’interessato sia disponibile, con Silvio Berlusconi, in una specie di mini union sacrèe contro i barbari populisti alle porte. Non è affatto detto che una simile coalizione avrebbe i numeri per governare: ma, piaccia o meno (e a chi scrive, per quel che vale, non piace neanche un po’), sarebbe comunque una proposta politica agli elettori. Il fatto è, però, che Renzi non potrebbe proporla apertamente già adesso per tanti motivi, ma soprattutto perché, solo a sentirla evocare, le (presunte) orde barbariche si ingrosserebbero a dismisura.
E dunque? Dunque Renzi vuole votare, ma non si sa in nome di che cosa, nostalgia dell’avvenire a parte, potrebbe chiedere il voto agli italiani. L’ansia di rivincita o la voglia di regolare i conti dopo una sconfitta sono state sempre, e sotto ogni cielo, delle pessime consigliere; e lo sono tanto più adesso, quando bisognerebbe avere chiaro, e rendere chiaro, che stiamo entrando in Italia in una stagione assolutamente inedita, e anche alquanto oscura. E’ tornata la Prima Repubblica, hanno strepitato in tanti dopo la sentenza della Consulta. Ma la Prima Repubblica non era solo quella del sistema proporzionale. Era quella dei partiti. E i partiti, vecchi o nuovi, pesanti o leggeri, semplicemente non ci sono più, o non ci sono ancora. Dunque, è di un proporzionale senza partiti che si parla. Di qualcosa di non troppo diverso, cioè, da un campionato che si gioca all’apparenza in modo regolare, ma senza società e squadre identificabili per i loro colori, i loro giocatori, il loro allenatore, e riconoscibili invece, nel migliore dei casi, solo per i loro presidenti. Non c’è bisogno di essere nostalgici del tempo che fu per prendere atto che si tratta di un nonsense puro, a modo suo persino divertente, ma soprattutto angoscioso. Forse è proprio dai partiti, e in questo caso dal Pd, che bisognerebbe ripartire, da quella impalpabile cosa, o peggio, che sono diventati, e da quello che potrebbero e dovrebbero essere. Ma si può ripartire dal nulla?