Pd e Cinque stelle: un’incompatibilità genetica impedisce ai due soggetti di diventare una coalizione
Schlein racconta indispettita che, per annunciarle l’imminente rottura degli accordi unitari a Bari, Giuseppe Conte le abbia telefonato cinque minuti prima. Conte giura di averlo fatto venti minuti prima. Ecco, in quei quindici minuti di sfasatura audio si può misurare la distanza, che oggi sembra incolmabile, tra i due trasmettitori del «campo largo». Ciò cui stiamo assistendo non è infatti l’effetto esplosivo ma in fin dei conti transitorio di un paio di inchieste giudiziarie. È piuttosto la rivelazione di una genetica incompatibilità tra Pd e Cinque Stelle.
Che certo in futuro potrà essere di nuovo nascosta o diplomatizzata, come del resto erano riusciti a fare con successo i dirigenti pugliesi del Pd, non a caso tra i più accesi fautori anche di un’alleanza nazionale giallo-rossa; e come forse potrebbero ritentare a Bari con l’ennesimo candidato «terzo». Ma un’incompatibilità tale da impedire sempre a quei «due» soggetti di diventare «una» alleanza, “una” coalizione politica, e che del resto entrambi portano scritta nel nome: l’uno è un partito, l’altro è un movimento.
Le parole non si scelgono mai a caso. E non è perciò un caso se il Pd, alla sua nascita, decise di chiamarsi «partito», proprio come quelli che andavano di moda nella Prima Repubblica e che erano stati spazzati via, guarda un po’, dalle inchieste giudiziarie. Gli eredi dei comunisti e dei democristiani volevano così affermare la loro intenzione di proseguire, seppure in termini rinnovati, una storia di radicamento territoriale e di integrazione sociale che fino ad allora era stata tutt’uno con la Repubblica: la storia del partito di massa. Il quale, come un grande fiume che solca le pianure, portava al mare acqua e terra, purezza e fango. Stava poi alla politica, all’uso che faceva di quei voti, ripulire e depurare il consenso, e raddrizzare così il legno storto dell’umanità.
Per i partiti di massa di un tempo tutto ciò era più facile, perché avevano un’ideologia, un fine, un orizzonte da raggiungere. Man mano che le grandi opzioni sono svanite, affievolendo così l’obiettivo del bene comune da perseguire, sono invece rimaste in piedi, scarnificate ma resistenti, solo le strutture organizzative, le burocrazie e le reti di potere: insomma l’hardware della politica. Che, come tutte le ferramenta, un po’ alla volta, a contatto con l’acqua del fiume, s’è arrugginito ed è marcito. Il voto è sempre uno scambio: o lo si scambia con un futuro migliore per tutti, o con un presente migliore per me e i miei amici.
Nel Pd è andata così: è sparito il software del programma politico, il progetto di società da costruire, deludendo quei milioni di elettori perbene che ancora ci sperano. Ed è diventato un «veicolo», una federazione di interessi locali e dei loro sensali, colonizzata un po’ ovunque dai professionisti della preferenza e dai collettori di consenso.
Da molto tempo ormai il Pd cambia linea e identità come gli abiti di stagione. I suoi capi possono portarloal governo con Monti e con Conte indifferentemente, allearsi con Berlusconi o con Fratoianni, scegliersi come segretario Renzi o Schlein, mostrarsi giustizialisti o garantisti a seconda delle inchieste, sostenitori delle guerre giuste o pacifisti a oltranza. Oscillano come il pendolo di Foucault, perché ciò che in loro ha prevalso è la vocazione al potere: «todo modo» pur di governare. Il che ha reso anche grandi servizi alla Repubblica nei momenti peggiori, quando tutto sembrava crollare sotto i colpi dello spread o del Covid. Ma ha anche reso quel partito particolarmente appetibile per coloro che nella politica cercano solo un reddito, un vantaggio, un profitto.
Che cosa è invece il Movimento Cinque Stelle? È una Cosa nata esattamente per rifiutare la politica dei partiti e del radicamento; che anzi ha ritenuto fin dall’inizio superflua e dannosa, destinata a essere ben presto sostituita da una nuova, ma finora inedita, democrazia digitale e senza politica. Dunque un movimento di opinione «one issue», cioè con il solo programma di mandare via gli altri perché inevitabilmente corrotti. Per questo il M5S rinuncia di fatto tuttora all’insediamento sociale e territoriale, e infatti alle amministrative non esiste o quasi. Rifiuta la pratica stessa dell’amministrazione come una potenziale infezione virale, e infatti a Roma la giunta Raggi preferì non fare nulla piuttosto che sporcarsi le mani con un appalto qualsiasi. Respinge o ignora le compatibilità dell’azione di governo, e infatti quando ha potuto ha usato il denaro dei contribuenti per una dissennata politica del «gratuitamente».
Che altro doveva fare allora Conte alle prese con lo scandalo pugliese, se non rompere col Pd e provare a fargliela pagare? Doveva forse «far politica», come pretende Elly Schlein, e mantenere gli accordi per «battere le destre»? Ma siamo sicuri che agli elettori dei Cinque Stelle vincere le elezioni interessi più che testimoniare la propria irriducibile alterità e diversità da tutti gli altri, specialmente se sono come quelli di Bari?
Ora Conte chiede a Schlein di tener fede alla sua promessa di liberarsi di «cacicchi e capibastone». Ma se lo facesse, se pure potesse, dovrebbe chiudere il partito dei circoli, dei sindaci, degli assessori, dei consiglieri di amministrazione. Dovrebbe trasformarlo in un movimento di opinione al pari dei Cinque Stelle: ma davvero c’è spazio per due in quel campo elettorale? Dovrebbe buttare con l’acqua sporca anche il bambino, anzi il ragazzo, visto che è nato ormai 17 anni fa. E forse buttare anche un bel po’ di voti, che poi è quello che Conte spera.
L’ondata di fango pugliese ha insomma sbattuto il Pd sull’ultima spiaggia di Elly Schlein, dove si può arenare la sua strategia: se non sai come rifare il Pd dalla base, non serve a niente «occupy il Pd» dalla testa, colonizzandolo con candidature e dirigenti esterni o estranei. In fin dei conti anche Emiliano lo era, quando cominciò il suo Ventennio al potere.