Patrick Horber di Novartis analizza le sfide globali che l’Ue deve affrontare per mantenere la propria competitività e non restare indietro a Stati Uniti e Asia. Bruxelles è pronta a cambiare rotta?
La salute è diventata uno dei principali terreni di sfida tra le grandi potenze e la competizione si fa sempre più accesa. Stati Uniti e Asia corrono mentre l’Europa rischia di restare indietro. Ma oggi Bruxelles sembra pronta a cambiare rotta, spinta anche dai rischi geopolitici e, in questo scenario, l’Italia può giocare un ruolo chiave come hub industriale, a patto di rafforzare la propria capacità produttiva e attrarre investimenti sulle tecnologie più avanzate. E’ questa la visione di Patrick Horber, International president di Novartis.
L’urgenza di un nuovo mindset in Europa
«Se mettiamo a confronto l’Asia e l’Europa, appare evidente una profonda differenza nel loro approccio nei confronti dell’innovazione e gli sviluppi degli ultimi mesi stanno portando l’Europa e realizzare la necessità di intervenire a sostegno della propria competitività, perché il rischio di perdere terreno rispetto agli Stati Uniti, ma anche rispetto alla Cina e al Giappone, è sempre più tangibile – dice Horber al Sole24Ore – Per affrontare questo rischio l’Europa deve cambiare il proprio mindset nei confronti dell’innovazione, passando da una visione di costo a una prospettiva di investimento e di valorizzazione di un settore che rappresenta un importante traino dello sviluppo economico»
Guardando al settore delle Life Science e alla riforma in corso della legislazione farmaceutica, per il manager di Novartis emerge con chiarezza il fatto che l’Europa non stia più supportando l’innovazione come faceva prima. «Penso ad esempio al tema della proprietà intellettuale, su cui sono in corso discussioni in Europa per ridurre la protezione dei dati regolatori da 8 anni a 6 anni, il che equivarrebbe a una riduzione del 25%. Questo è un elemento molto significativo, perché in Paesi come il Giappone e la Cina la protezione brevettuale sta aumentando, a dimostrazione del fatto che in questi Paesi l’industria farmaceutica è considerata un motore di crescita dell’economia e non un costo».
Oltre al calo dei brevetti registrati annualmente in Europa, l’altro tema è l’approvazione regolatoria di nuove molecole: «su cinque molecole lanciate negli Stati Uniti, una non è stata neanche sottomessa per l’approvazione regolatoria in Europa. Questo significa che solo il 20% delle molecole entra nel mercato europeo e stiamo parlando di molecole innovative per malattie croniche e oncologiche», continua Horber.
Sperimentazioni cliniche: Ue in ritardo
Un altro ambito molto importante, che rappresenta una sfida per la competitività del settore in Europa è quello delle sperimentazioni cliniche, che sono aumentate in paesi come la Cina, dove il Governo sta offrendo protezione dei dati e della proprietà intellettuale per favorire l’innovazione. «Se oggi in Cina le sperimentazioni cliniche crescono a un ritmo del 15% ogni anno, negli Stati Uniti la crescita è del 10% e in Europa è di circa il 5% – precisa Horber – Di fatto, il numero dei pazienti europei coinvolti nelle sperimentazioni cliniche è inferiore a quello di 10 anni fa, una situazione che merita grande attenzione».
A pesare, secondo Horber, è stato un sistema regolatorio complesso e frammentato, che ha reso meno attrattivi gli investimenti rispetto ai modelli americani e asiatici. Ma qualcosa sta cambiando. Nelle ultime tre settimane l’Unione Europea ha dimostrato interesse verso il comparto farmaceutico e lo ha coinvolto per discutere delle potenziali conseguenze dei dazi e di come intervenire a sostegno del settore.
La pressione dei dazi
«Al momento il presidente Trump non ha imposto dazi sui prodotti farmaceutici e ritengo che di fronte ai bisogni dei pazienti non dovrebbero esserci ostacoli alla fornitura di ingredienti o alla distribuzione dei farmaci – commenta Horber – Come azienda abbiamo siti produttivi in tutto il mondo e la nostra catena di approvvigionamento è strutturata in modo da poter far fronte a catastrofi naturali o altri impedimenti, che possano mettere a rischio la produzione e la fornitura dei nostri farmaci ai pazienti che ne hanno bisogno. Questo ci aiuta a mitigare i rischi, compresi quelli di eventuali dazi, che potrebbero comunque impattare sulla nostra attività, ma ci sentiamo preparati a gestire queste sfide». Detto questo, il gruppo farmaceutico svizzero di fronte ai dazi preannunciati da Donald Trump ha annunciato l’intenzione di espandere la propria presenza produttiva e di R&S negli Stati Uniti, con un investimento complessivo pari a 23 miliardi di dollari nei prossimi 5 anni. In particolare, l’azienda realizzerà anche due nuovi stabilimenti di produzione per la terapia con radioligandi (Rlt) in Florida e Texas ed espanderà 3 stabilimenti di produzione per Rlt a Indianapolis in Indiana, Millburn in New Jersey e Carlsbad in California. Ricordiamo che Novartis ha 3 importanti siti produttivi in Italia, che sono al primo posto per contributo dato alla crescita delle esportazioni.
Le barriere: cost containment e tempi di accesso
«Come azienda continuiamo a investire in Europa e in particolare in Italia, dove Novartis è l’azienda con il maggior numero di sperimentazioni cliniche attive» precisa Horber. E per quanto riguarda l’Italia, tra i principali esportatori di farmaci, Horber sottolinea l’eccellenza del nostro Paese, ma anche i limiti delle politiche di contenimento della spesa sanitaria, che rischiano di rallentare l’accesso all’innovazione.
«L’Italia gioca un ruolo chiave per Novartis e per l’industria Life science europea: è tra i Paesi con più brevetti nel settore e traina l’export farmaceutico. I nostri tre principali siti produttivi in Italia sono leader nelle esportazioni di terapie innovative, come i radioligandi e i farmaci cardiovascolari» osserva Horber, che però aggiunge: «L’Italia riconosce il valore dell’innovazione, ma al tempo stesso adotta meccanismi restrittivi come i tetti di spesa ospedaliera e il payback, che rischiano di penalizzare l’accesso dei pazienti ai nuovi trattamenti. Il Paese spende per la sanità circa il 6,2% del Pil, contro una media europea del 6,8% e valori ancora più alti in Germania. Inoltre, l’iter di approvazione e rimborso dei farmaci è lento rispetto ai principali Paesi europei».
Insomma, nella nuova geopolitica della salute c’è anche una ridefinizione delle supply chain da non sottovalutare.