Diventare meno dipendenti dalla protezione americana costa. Salvo consegnarsi come subalterni alla Russia o alla Cina, la difesa è una sfida impegnativa
Il conto alla rovescia da qui al 5 novembre sembra non finire mai. Da occasionale visitatore del Vecchio continente osservo un paradosso: l’impressione che gli europei siano ancora più estenuati degli americani da questa campagna elettorale. È comprensibile. L’Europa lamenta un vuoto di potere Usa perché i suoi effetti si soffrono in due tragiche guerre — Medio Oriente e Ucraina — ben più vicine ai confini italiani o tedeschi, di quanto lo siano a New York e Los Angeles.
L’influenza di Biden su Netanyahu è modesta anche perché ogni attore della geopolitica fa le sue scommesse sul dopo-elezioni. L’offensiva di Putin mette alle strette Zelensky senza che ci sia una exit strategy, un piano d’uscita chiaro alla Casa Bianca, mancano leadership e indicazioni dal principale sostenitore della resistenza ucraina. Ma per un momento è utile rovesciare la prospettiva. Quindi chiedersi: come appare l’Europa vista dagli Stati Uniti? Risposta: un disastro, e peggio che in passato. I tre Paesi storicamente importanti, Germania Francia Inghilterra, hanno governi di una debolezza senza precedenti. Il Rapporto Draghi ha lanciato un allarme già dimenticato. Berlino ha appena rotto la solidarietà europea verso la pressione cinese, votando contro i dazi sulle auto elettriche made in China (segnale di divisione pericoloso).
L’Italia fa eccezione per la stabilità di governo. Però non è mai stata vista da Washington come un peso massimo. Inoltre la persistente debolezza negli investimenti italiani per la sicurezza (è uno degli ultimi paesi Nato ancora inadempienti sul 2% del Pil da destinare alla difesa) non aumenta la sua influenza. Visto dalla Casa Bianca e dal Pentagono il governo Meloni dice le cose giuste ma non ne trae tutte le conseguenze, neppure quando il Mediterraneo è una polveriera.
In quanto agli altri, ricordiamo la battuta acida di Henry Kissinger quando era segretario di Stato del presidente Nixon: «Che numero di telefono devo fare per parlare con l’Europa?». Il sarcasmo alludeva alle divisioni nazionalistiche già forti allora. Se Kissinger fosse ancora vivo, potrebbe chiedersi se oggi esista un numero di telefono perfino per parlare con Parigi, o con Berlino, o con Londra. La Francia è confusa e bicefala, Macron conta sempre meno, il premier cerca appoggi da Marine Le Pen. In Germania non si era mai visto un cancelliere debole e incapace quanto Scholz; e il modello economico tedesco, agonizzante, va ripensato. Pure il Regno Unito sorprende in negativo: non sono passati cento giorni dal suo apparente trionfo elettorale, e già il laburista Starmer affonda nell’impopolarità.
I pochi americani, ai vertici dell’establishment, che hanno prestato attenzione al Rapporto Draghi, ne hanno ricavato qualche idea sullo stato dell’Europa. Primo, che ha accumulato ritardi ultradecennali sugli Stati Uniti in termini di crescita, creazione di lavoro, innovazione e dinamismo tecnologico. Secondo, che deve darsi una robusta politica industriale, inseguendo Cina e America che la praticano da tempo per allevare «campioni nazionali». La ricetta Draghi però è contestata da Berlino su un aspetto qualificante. Finanziare la rinascita industriale nelle tecnologie avanzate facendo nuovo debito e stampando Eurobond, ai liberali tedeschi sembra il solito statalismo spendaccione.
In assenza di alternative una parte dei risparmi europei continueranno a finire in America, a finanziare venture capital e start-up innovative. Le rivoluzioni tecnologiche continueranno a nascere nella Silicon Valley californiana, reclutando fior di ingegneri italiani francesi tedeschi spagnoli (oltre che cinesi e indiani). Quando guardano alla propria classe politica gli americani sono depressi; quando guardano all’economia e alla tecnologia, nonché ai flussi migratori dei talenti più qualificati, constatano che l’America sta meno peggio degli altri.
Dalla parte opposta del mondo, il Giappone ha un nuovo leader che di fronte ai dubbi sul futuro impegno americano vuole un aumento delle responsabilità del suo Paese, fino a immaginare soldati giapponesi nelle basi americane. In Europa il dibattito sulla difesa comune è immobile.
In una versione ottimista, fra un mese avremo la prima presidente donna e di colore alla Casa Bianca; l’apparato tecnocratico e globalista che ha guidato la politica estera Usa negli ultimi quattro anni continuerà a farlo. Gli alleati potranno tirare un sospiro di sollievo.
Illudersi che Kamala Harris aggiusterà tutto, richiede di sorvolare su alcuni dati di fatto. Il bilancio dei «competenti democratici al comando» è un mondo in fiamme. Un futuro disimpegno Usa in qualche misura è inevitabile: per ragioni finanziarie, e per dare priorità alla sfida cinese. Inoltre gli americani hanno il vizio di votare ogni due anni, fra Congresso e presidenza, per cui aggrapparsi al colore politico del vincitore di turno non è garanzia sempiterna. Infine si ignora una metà del problema, quella europea. Diventare meno dipendenti dalla protezione americana costa. Salvo consegnarsi come subalterni alla Russia o alla Cina, la difesa è una sfida impegnativa. Anche di questo parla il Rapporto Draghi, guarda caso è uno degli aspetti subito dimenticati.