L’amministrazione che si insedierà in America ci mette di fronte a scelte cruciali. Agli europei converrebbe accelerare il processo di integrazione. Ed è sperabile che i singoli governi, quando dovranno negoziare, non procedano in ordine sparso
Come difendersi dall’infantilismo politico? Bisogna o no trattare con «l’impresentabile»? Va contrastata la tendenza di coloro che, non disposti a prendere atto della realtà, si apprestano a contestare i governi europei che dovranno fare i conti con Trump. Già qui in Europa, dobbiamo vedercela con una vasta frazione dell’opinione pubblica che non nasconde le proprie simpatie per Putin e che apprezza Trump perché pensa che egli permetterà alla Russia di chiudere a proprio vantaggio la vicenda ucraina.
Se ci si mette di mezzo anche la fazione dei puri di cuore secondo cui non dovremmo «sporcarci le mani» trattando col nuovo presidente, sarà difficile trovare i mezzi per tutelare, per quanto è possibile, i nostri interessi. È questa la minestra che ci hanno servito gli elettori americani. Non possiamo permetterci di alzarci dal tavolo e di uscire sbattendo la porta. Per la semplice ragione che non abbiamo dove andare.
All’Europa sarebbe servita una vittoria di Harris. Nonostante la sua evidente inadeguatezza. Con Harris alla Casa Bianca, per lo meno, si sarebbero un po’ allungati i tempi del declino, ormai in atto da tempo, dell’ordine internazionale creato dagli Stati Uniti dopo il 1945 e grazie al quale l’Europa ha potuto godere di pace, benessere e stabilità democratica. La ricerca di soluzioni alternative da parte degli europei sarebbe stata meno assillante e drammatica.
L’Ucraina avrebbe tratto vantaggio da una vittoria di Harris ma chi crede che un’Amministrazione democratica avrebbe fatto grandi sconti all’Europa si sbaglia. Avrebbe comunque accollato agli europei i costi della ricostruzione dell’Ucraina, avrebbe preteso dai governi europei (proprio come farà Trump) un maggiore impegno di risorse da mettere a disposizione della Nato, non avrebbe abbandonato la politica protezionista di Biden e che egli, a sua volta, aveva ereditato dalla precedente Amministrazione Trump. Sono alcuni degli effetti del ridimensionamento della potenza americana e del connesso declino dell’ordine internazionale nato dopo il ’45. Chiunque occupi la Casa Bianca, democratico o repubblicano che sia, i tempi della «benevola» egemonia americana sull’Europa (con i vantaggi che garantiva agli europei) sono finiti. E allora perché è un guaio per noi la vittoria di Trump? Perché con lui i processi in atto da tempo subiranno un’accelerazione.
Indubbiamente, i rapporti fra America e Europa nell’era Trump saranno influenzati anche da quanto accadrà alla democrazia americana. Le propensioni autoritarie dell’uomo sono indubbie. Però le istituzioni della democrazia americana sono forti e radicate. Prima di dare per assodato che la democrazia liberale statunitense sia spacciata, conviene aspettare qualche anno. Vedremo. Se dovessi per forza scommettere, scommetterei che, nonostante Trump, l’America non diventerà una democrazia illiberale. Non sembra implausibile l’idea che egli, a causa degli ostacoli che incontrerà, dovrà rinunciare al progetto di radicali cambiamenti all’interno del suo Paese, nonché adattarsi a un mondo esterno assai complicato.
Ovviamente, il test dell’Ucraina sarà cruciale, quanto meno per valutare le conseguenze internazionali della vittoria di Trump. La condizione di quel Paese e le sue prospettive per il futuro quando taceranno le armi, diranno tutto ciò che c’è da sapere sulla politica del nuovo presidente verso l’Europa. Soprattutto, diranno se ci sarà piena coerenza (per sfortuna degli ucraini) fra la propaganda elettorale e le scelte della Casa Bianca.
La voce della ragione dice che agli europei converrebbe accelerare il processo di integrazione. A cominciare, come ha sostenuto Mario Draghi, dal cruciale settore della difesa. Ma, realisticamente, ciò non è oggi possibile. Almeno fino a quando i due Paesi che, storicamente, sono stati le guida dell’Europa, Germania e Francia, non supereranno la loro attuale condizione di debolezza politica. Per inciso, è paradossale il fatto che in questo momento il governo più forte e stabile fra i Paesi fondatori della comunità europea (oggi Unione) sia quello della democrazia tradizionalmente più segnata dall’instabilità e dalla debolezza dei suoi esecutivi: l’Italia. È difficile ora fare di più che tentare di salvare il salvabile, di impedire che nell’Unione prevalgano le spinte centrifughe.
Non ci sono grandi alternative: i governi europei dovranno fare i conti con la propensione di Trump a scavalcare le istituzioni europee e a trattare con i singoli Paesi. Forse, in tale frangente, dispongono delle migliori carte la Gran Bretagna e l’Italia. La Gran Bretagna, per i suoi storici legami con l’America che nemmeno uno come Trump — nonostante che il premier britannico attuale sia un laburista — potrà facilmente ignorare . E l’Italia per la stabilità del governo, per il posizionamento di Giorgia Meloni in Europa come ponte fra conservatori, popolari e sovranisti (Marine Le Pen e associati) e forse anche per il suo rapporto privilegiato con Elon Musk.
È sperabile che i singoli governi europei, quando arriverà il momento di negoziare con Trump (si tratti di sicurezza o di rapporti commerciali), non si limitino a ricercare solo vantaggi a breve termine per il proprio Paese ma si preoccupino anche, data la stretta interdipendenza fra le società europee, degli effetti, delle conseguenze per l’Europa. Siamo entrati in un mondo nuovo. Però le regole della politica non cambiano.