Fonte: La Stampa
Via libera con 343 sì e 263 no
C’è un Giuseppe Conte del mattino e uno della sera. Se nel discorso di apertura alla Camera i toni sono miti e l’animo è paziente, quando arriva il momento della replica finale il vocabolario del presidente del Consiglio si fa più aspro. Le opposizioni urlano, lo interrompono. Lui, trascinato in un clima da stadio, reagisce attaccando con ferocia gli ex alleati leghisti. E così, la replica di Conte si trasforma in uno strumento utilizzato dal premier per azzerare la memoria degli ultimi 14 mesi gialloverdi, creare un solco profondo tra la nuova maggioranza e Matteo Salvini, recidere ogni legame con il passato.
«Il Movimento 5 stelle – dice Conte in un primo passaggio del suo discorso – ha ritenuto di fare della coerenza con il proprio programma, il centro della propria virtù politica…». Ed ecco che viene interrotto dalle grida che si sollevano dai banchi del centrodestra: «Buffoni! Buffoni!», «Dignità! Dignità!», «Venduto!», «Bibbiano!», scanditi come al ritmo incessante di un tamburo. Il presidente della Camera Roberto Fico tenta di riportare la calma. Suona nervoso la campanella, chiama i commessi: «Colleghi, questo comportamento è inaccettabile», grida al microfono. Ma è in quel momento che un deputato leghista, Giuseppe Donina, scardina la sedia dove fino a un attimo prima era seduto e la alza sopra la testa, come a volerla scaraventare giù. «La sedia no!», interviene Fico, minacciando l’espulsione. Ma ormai è tardi. La sedia resta al suo posto, mentre tutto il resto scivola giù verso poco consone atmosfere.
Conte ci riprova. È visibilmente spazientito e questa volta il discorso prende una piega velenosa. Si rivolge alla Lega: «Io non ho mai detto e non dirò mai che voi avete tradito, ma mentre il Movimento 5 stelle è stato coerente al proprio programma, voi dimostrate di essere coerenti alle vostre convenienze elettorali». Conte non prova nemmeno a proseguire. Cosciente dell’effetto delle sue parole. E infatti la curva del centrodestra esplode più fragorosa di prima, tornando a scandire i loro cori: «Mai col Pd! Mai col Pd!», «A casa! A casa!». I deputati leghisti sbracciano, urlano, qualcuno esce dall’Aula. I ministri Pd e M5S chiedono un po’ di rispetto, ma lo fanno con toni appropriati, rivolgendosi ai lanciatori di cori che in quel momento si agitano tra gli scranni di Fratelli d’Italia. «Vie’ qua», grida allora Giorgia Meloni in direzione dei banchi del governo. Aspetta qualche secondo, ripete l’invito colorandolo con gesti plateali, prima di portarsi l’indice alla bocca e intimare più volte «stai muto, hai il guinzaglio», mimando tutto, a scanso di equivoci.
Torna a sentirsi nel vociare, quasi in lontananza, la campanella di Fico: «Fate finire il discorso del presidente Conte». Il premier riprende, ma ormai l’anima è incattivita. E lo sguardo cade con insistenza sugli ex alleati leghisti. Parla di sicurezza, in segno di sfida: «Pensavate di aver ipotecato la rappresentanza e il presidio di un comparto, ma non è così». Poi prova a prenderli di petto: «C’è stato il deputato Garavaglia, con cui ho lavorato per mesi fianco a fianco, che ha usato un’espressione volgare: “Volete rimanere imbullonati alle poltrone”». Scoppia l’ennesima bagarre. Conte aspetta, prosegue: «È una espressione inappropriata, perché per me una poltrona è avere responsabilità. Ma messa su questo piano, cosa devo pensare, che volevate andare ad elezioni per avere più poltrone?».
Il leghista Claudio Borghi è fuori di sé, ma Conte sembra averci preso gusto e attacca di nuovo gli ex ministri leghisti: «Se mi permettete, avete sbagliato giuramento. Perché i ministri che hanno giurato al Quirinale, hanno giurato di tutelare l’interesse esclusivo della Nazione, non del proprio partito». E chiede ancora: «Perché ministri che presentano una mozione di sfiducia non si dimettono?». Tornano le urla. Tornano i cori. L’ultimo ricordo del passato gialloverde viene lasciato morire. Almeno su questo, opposizioni e maggioranza sono d’accordo.