Fonte: Corriere della Sera

di Beppe Severgnini

L’America non è guarita, ma dovrebbe aver capito che la medicina non è la follia clinica di QAnon o le battute aberranti di Rudy Giuliani, e davanti a Capitol Hill il partito repubblicano ha visto l’abisso, e farà quasi certamente un passo indietro


Sconcerto, preoccupazione, disgusto. Perfino sollievo, alla fine. Sorpresa, no. L’assalto al Congresso degli Stati Uniti d’America non deve stupirci. Un’azione simile — assurda e provocatoria — maturava da quattro anni: da quando Donald Trump è alla Casa Bianca, dove ha fatto di tutto per dividere la nazione che avrebbe dovuto unire. Non gli è bastato. Da due mesi il presidente nega la sconfitta elettorale, ripetendo pericolose falsità. Ha citato, evocato, corteggiato i fanatici e incitato i violenti. Che, alla fine, hanno risposto.
Gente che si arrampica sui muri, sfonda le finestre, spacca insegne e cartelli, si sdraia nel seggio della speaker della Camera, si porta via un leggìo come souvenir. Gente con le armi, con i caschi, con le maschere, con le corna e le pellicce, con magliette che inneggiano ad Auschwitz. Immagini che sembrano uscire da una serie televisiva distopica, ma non devono ingannare. A Washington DC è andata in onda la realtà: abbiamo assistito a un tentativo di colpo di Stato. Goffo e improbabile, forse. Ma resta un assalto alle istituzioni democratiche. Chi minimizza, diventa complice.
C’è qualcosa di sacrilego, nella vicenda di cui siamo stati testimoni. E si aggiunge al numero dei morti, dei feriti, degli arresti, dei danni. Gli Stati Uniti d’America — nazione giovane, democrazia vecchia — vivono di simboli e di rituali: dal giorno del Ringraziamento al dollaro verde, dalla Casa Bianca al Congresso sulla collina. L’assalto cui abbiamo assistito è uno sfregio a questa idea di convivenza. Uno sfregio e un imbarazzo planetario: è orribile diventare lo zimbello del mondo, dopo esserne stati a lungo l’ideale. Sarebbe affascinante conoscere i commenti al Cremlino e nella Città Proibita di Pechino, mentre andavano in onda le immagini dalla capitale degli Stati Uniti d’America.
C’è solo una consolazione in quanto è accaduto, ed è questa. L’epilogo shakespeariano dell’avventura presidenziale di Donald Trump — il Re Lear di Mar-a-Lago, ha scritto qualcuno — rappresenta la fine di un esperimento: quello del populismo aggressivo, condito di negazionismo e ossessioni, cullato dagli algoritmi dei social. I titani digitali non hanno aspettato di sapere se verrà invocato il XXV Emendamento, che consente di sostituire il presidente se «impossibilitato a esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio» (unable to discharge the powers and duties of his office): hanno bloccato gli account Twitter, Facebook e Instagram di Donald Trump, per impedirgli di fare altri danni.
Il presidente uscente è imperdonabile. Ma senza l’assalto al Congresso — state certi — qualcuno avrebbe provato a trovargli attenuanti. Lo stesso Trump avrebbe provato a usare la base dei sostenitori irriducibili per costruirsi un trampolino per tornare nel 2024, direttamente o per interposta figliola. Avrebbe raccolto fondi, creato un canale televisivo personale, sabotato la nuova amministrazione in ogni modo e in ogni momento. Proverà a farlo comunque? Certo. Ma quanti saranno disposti a dargli retta? Il partito repubblicano, davanti a Capitol Hill, ha visto l’abisso, e farà quasi certamente un passo indietro.
Questo non significa che l’America sia guarita. Ma dovrebbe aver capito che la medicina non è la follia clinica di QAnon o le battute aberranti di Rudy Giuliani, ormai l’ombra della persona che era. Donald Trump ha chiamato «patrioti» i sovversivi e vincente se stesso, sconfitto nelle urne e dalla storia. A questo punto tutto appare chiaro, anzi cristallino: impossibile non capire chi è l’uomo e qual era il suo progetto. È finito il tempo delle giustificazioni, delle attenuanti, dei distinguo. Possiamo — anzi, dobbiamo — cercare di capire il disagio di chi si sente escluso, negli Usa e non solo. Ma guai ad accettare che il disagio autorizzi un colpo di Stato.
Il trumpismo, con ogni probabilità, è finito il 6 gennaio 2021. Lo spettacolo di Donald Trump riserverà ancora qualche esibizione, nei giorni che mancano all’insediamento del successore Joe Biden e dopo aver lasciato la Casa Bianca. Ma i propositi, i metodi e i comportamenti del 45° presidente sono morti davanti alle colonne bianche del Congresso, in un pomeriggio di gennaio. Per l’America è tempo di guardare avanti.

A.N.D.E.
Panoramica privacy

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.