La comunicazione muscolare di Trump ha preso di mira il mondo della fiscalità internazionale. Dopo essere stata negli ultimi 15 anni un esempio di multilateralismo, forse il più fruttuoso, sicuramente il più pubblicizzato del G20, è oggi messa in discussione dai memoranda del 20 gennaio 2025, dove i toni utilizzati altro non sono che una conseguenza del rigetto del presidente Usa per la globalizzazione. Globalizzazione che era stata resa possibile anche dalle regole di fiscalità internazionale, almeno fino alla consapevolezza – probabilmente tardiva – che c’era bisogno di correttivi. sfociati nel Fatca (Foreign Account Tax Compliance Act) e nel Crs (Common reporting standard), fino alla fine del segreto bancario insieme al progetto Beps (Base erosion and profit shifting) sulla tassazione delle multinazionali.
Nel contesto di smarrimento generato dal ciclone Trump proviamo allora a interpretare il memorandum e a tracciare i nuovi scenari.
Trump ha incaricato il segretario del Tesoro, in consultazione con il rappresentante permanente del Commercio, di verificare eventuali violazioni dei trattati fiscali e l’adozione, da parte dei Paesi stranieri, di norme che possano essere considerate extraterritoriali o discriminatorie nei confronti delle imprese americane. Entro 60 giorni, il Tesoro dovrà presentare al presidente «un elenco di opzioni per misure protettive o altre azioni che gli Stati Uniti dovrebbero adottare o intraprendere in risposta a tali inadempienze o norme fiscali».
Per le misure protettive, il punto di partenza sarà il Defending american jobs and investment act che è stato riproposto dal presidente del Ways & means committee, e che prevedeva un aumento del 5% all’anno della tassazione sui redditi di fonte statunitense dei grandi investitori e delle società residenti nei Paesi indicati nel rapporto del Tesoro, fino a un massimo del 20% di maggiorazione. Degno di nota è anche il riferimento alla sezione 891 dell’Internal revenue code nel memorandum America first trade policy pubblicato lo stesso giorno. Quella disposizione, che esiste dal 1934 e non è mai stata attuata, prevede il raddoppio delle aliquote per i cittadini e le società di un Paese che assoggetta i cittadini o le società degli Stati Uniti a imposte discriminatorie o extraterritoriali.
Per quanto riguarda invece l’identificazione di misure discriminatorie o extraterritoriali, si può ipotizzare che le prime facciano riferimento alle Digital service taxes (Dst), e che le seconde facciano riferimento alle Utpr (regole dell’imposizione aggiuntiva).
In relazione alle Dst, si torna alla prima presidenza Trump: gli Usa si opposero fermamente a queste imposte, ritenendole discriminatorie nei confronti delle aziende tecnologiche americane e avviarono indagini applicando la Sezione 301 del Trade act del 1974 contro gli Stati che le avevano introdotte e in vista dell’imposizione di dazi.
Le Dst cercano di attrarre a tassazione l’estrazione di valore dal territorio dello Stato che avviene attraverso l’immagazzinamento, la lavorazione e lo sfruttamento dei dati che gli utilizzatori mettono a disposizione sul web in cambio di servizi digitali teoricamente gratuiti. Il Pillar 1 verrà messo in soffitta e non è chiaro quale sarà l’approccio di Trump. Ci sono sicuramente validi argomenti per dimostrare che alcune Dst non si applicano solamente alle società americane. In Italia, per esempio, la riprova è che diversi grandi gruppi editoriali nazionali la pagano. Come rilevato dal ministero dell’Economia, nel primo anno di applicazione (2021), tra i contribuenti figuravano 59 residenti in Italia, 45 negli Stati Uniti, 16 in Irlanda, 15 in Germania, 14 nel Regno Unito, dieci in Francia, dieci nei Paesi Bassi, dieci a Singapore e otto in Australia. Inoltre, con la diffusione di smart car, smart tv e wearables, il numero di soggetti che ottiene i dati degli utenti e li utilizza a fini commerciali è destinato ad aumentare.
L’Utpr è invece il backstop della Global minimum tax. Se ci sono redditi tassati meno del 15% nel Paese in questione e nessun altro Paese li ha tassati (in base ad una Income inclusion rule), allora gli stessi vengono allocati e tassati proporzionalmente in tutti i Paesi che hanno una Utpr e nei quali opera la multinazionale. Il primo tema è se la Gmt sopravvive senza il suo backstop. Il secondo è se l’extraterritorialità dell’Utpr che Trump vuole combattere si riferisce solo ai redditi prodotti negli Usa o anche ai redditi di controllate estere di gruppi americani.
Altro punto controverso è se l’extraterritorialità possa riguardare anche le Iir (Imposta minima nazionale) e quindi l’imposizione da parte del Paese della capogruppo di redditi prodotti da controllate americane del gruppo (e tassati negli Stati Uniti meno del 15%). Una risposta affermativa sarebbe completamente incoerente con il fatto che gli Stati Uniti fanno esattamente la stessa cosa con le proprie regole Cfc (sulle controllate estere, ndr) (prima Subpart F e poi Gilti) con la unica differenza sostanziale che, mentre le Iir si applicano Paese per Paese, il Gilti americano effettua il calcolo su tutte le giurisdizioni estere. Ma la coerenza non sembra essere più un principio ispiratore.
In attesa del rapporto del segretario del Tesoro, non è un segreto che tanti tax director speravano nella fine dell’“incubo” global minimum tax. Un “incubo” che non sarebbe giustificato dal gettito aggiuntivo, mettendo quindi in discussione lo stesso rapporto costi-benefici. Di contro, il rischio per le imprese è di trovarsi, inermi, tra due fuochi.