Fonte: Il Sole 24 Ore
di Marco Mobile e Giovanni Trovati
La pace fiscale è in prima fila nell’elenco delle priorità del nuovo governo, come ha confermato da ultimo anche il vicepremier Matteo Salvini. A spingerla è il suo ruolo di motorino d’avviamento per la dual tax, cuore della riforma tributaria giallo-verde: ma la strada verso il nuovo fisco è per ora fitta di ostacoli. E uno di questi è proprio la «pace fiscale».
Alla definizione ultra-agevolata delle vecchie cartelle i calcoli alla base della proposta attribuiscono un ruolo cruciale, in grado di raccogliere nel primo anno oltre 30 dei 50 miliardi di euro di entrate che si perderebbero con la riforma. Ma secondo le prime analisi sui dati ufficiali condotte dai tecnici, l’obiettivo è parecchio ambizioso. L’idea di incassi maxi si basa sulla speranza che le aliquote agevolate (6, 10 e 25% in base alle condizioni economiche) spingano all’adesione molti dei contribuenti, titolari di 348,4 miliardi di cartelle arretrate, su cui il fisco ha provato senza successo le azioni esecutive. Ma le speranze non possono essere «bollinate» dalla Ragioneria, e le prime analisi tecniche fermano il pallottoliere fra i 3 e i 5 miliardi. Anche perché dal conto vanno tolte le cartelle dei due milioni di contribuenti che sono saliti sul carro delle rottamazioni targate Renzi, e hanno così regolarizzato la loro posizione.
Ma il peso del «saldo e stralcio» è solo il primo degli aspetti da affinare prima di passare ai fatti. Per garantire la progressività, la proposta prevede una doppia aliquota (15% per i redditi familiari fino a 80mila euro, 20%, su tutto il reddito, per quelli superiori) e due livelli di applicazione delle deduzioni da 3mila euro: per tutti quando il reddito familiare è fino a 35mila euro, per i soli familiari a carico nella fascia 35-50mila euro, e per nessuno sopra. Ma un sistema di questo tipo, senza correttivi, produrrebbe degli «scaloni fiscali»: a un reddito da 79.999 euro la dual tax chiederebbe 11.999 euro, ma basterebbe un euro in più di reddito per far volare il conto a quota 16mila euro (4mila euro in più). In una famiglia con due lavoratori e due figli a carico, un reddito da 34.999 euro produrrebbe un’imposta da 3.450 euro, e uno da 35mila euro si tradurrebbe in 900 euro di tasse in più.
Un sistema del genere, oltre a sollevare problemi di equità, si trasformerebbe in un disincentivo all’aumento del reddito. E un altro freno arriverebbe alle politiche pro-famiglia: con 60mila euro di reddito complessivo, la dual tax darebbe uno sconto fiscale del 53% a un single, ma il beneficio si ridurrebbe al 31% nel caso di famiglia con due redditi e un figlio. Se i figli sono due, il taglio scende ancora al 27%, e si riduce al 22% con tre figli. La differenza si spiega con l’attuale sistema di detrazioni per i famigliari a carico, che hanno un raggio d’azione molto più ampio di quello previsto per la deduzione da 3mila euro. Una clausola di salvaguardia, poi, dovrebbe tutelare i redditi fino a 15mila euro, applicando il sistema attuale che per loro sarebbe migliore del nuovo. L’ipotesi complica però parecchio i calcoli, soprattutto nel mondo delle dichiarazioni pre-compilate. L’alternativa potrebbe arrivare da una nuova «no tax area», evocata nelle repliche del premier Conte alla Camera: la soluzione allargherebbe però il peso delle coperture da trovare.
Sul piano pratico, poi, il conto finale dipenderebbe anche dalla scomparsa degli altri sconti fiscali, il lungo elenco delle tax expenditures che con la riforma lascerebbe il posto a due sole voci: quello per i mutui prima casa e i bonus per i lavori edilizi già pagati. Per le famiglie che hanno spese sanitarie, o utilizzano le deduzioni per colf e badanti oppure beneficiano di un’altra delle tante voci “favorite” dal fisco attuale (per esempio l’istruzione), l’effetto dual tax si rivelerebbe assai meno generoso del previsto.
Una riforma così radicale deve poi stare attenta ai molti effetti collaterali che si attivano quando si interviene su un’architettura complessa come il fisco attuale. Oggi, per esempio, i contributi previdenziali sono deducibili, in quanto «redditi differiti», e per questa ragione sono tassati quando si trasformano in pensione. L’addio alla deduzione imporrebbe quindi di non tassare le pensioni, per evitare quella che si rivelerebbe una forma di doppia imposizione. La deduzione, insomma, dovrebbe rimanere.
Ma le deduzioni attuali riducono anche l’imponibile su cui si applicano addizionali regionali e comunali, che senza un correttivo salirebbero con la dual tax perché riferite a una base di calcolo più grande. Il crollo del gettito, invece, trascinerebbe in basso i contributi prodotti oggi da 8, 5 e 2 per mille.