22 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

Trump protesta chiusura frontiere

di Claudio Gerino e Agnese Ananasso

I procuratori generali di 16 Stati: “Bando incostituzionale”. ll Nyt: “Parziale e confusa retromarcia”. Esentati possessori della carta verde. Giudice federale blocca il rimpatrio coatto dei profughi fermati negli scali Usa. Si protesta anche negli aeroporti dove decine di persone sono ‘sospese’ dal bando contro i 7 paesi musulmani. Critiche da leader dell’hi-tech e della cultura, da Zuckerberg a Stephen King. Ipotesi controllo contatti, social media e siti web frequentati dai visitatori

La protesta contro il bando di Donald Trump all’immigrazione, fermato parzialmente ieri da un giudice federale, dilaga nel mondo e in Usa, arrivando sotto alla Casa Bianca, dove oggi diverse migliaia di persone hanno manifestato sotto lo slogan ‘No Muslim ban’. E una folla enorme si è riunita a Battery Park, la punta sud di Manhattan sulla baia di New York, di fronte alla Statua della libertà. Gli slogan più gettonati sono ‘No Ban No Wall’, ‘Dump Trump’, ‘We are all american’. Una protesta montata anche negli aeroporti statunitensi, dove migliaia di persone manifestano all’interno e all’esterno degli scali aerei  e decine di avvocati si mobilitano per offrire assistenza legale alle persone bloccate nei terminal di New York, Chicago, Los Angeles, Boston, Atlanta e di altre città.
Mentre l’America protesta in piazza e negli scali, i procuratori generali di 15 stati e della capitale hanno emesso una dichiarazione congiunta con cui condannano come incostituzionale il provvedimento di Trump contro i viaggiatori provenienti da sette Paesi a maggioranza islamica. Gli attorney general sostengono che la libertà religiosa è un principio fondamentale del Paese, auspicando che l’ordine esecutivo sia ritirato e impegnandosi nel frattempo a garantire che il minor numero possibile di persone soffrano per questa situazione.
Secondo il New York Times, il capo di gabinetto di Donald Trump, Reince Priebus, ha fatto sapere che verranno esentati dal divieto di ingresso i possessori della carta verde, quella che garantisce il soggiorno su territorio americano. Sempre a detta di Priebus, comunque, la polizia di frontiera mantiene “l’autorità discriminatoria” di trattenere e sottoporre a interrogatorio viaggiatori sospetti che provengano da alcuni paesi.
Da Theresa May, premier del Regno Unito, alla cancelliera tedesca Angela Merkel e Justin Trudeau, primo ministro canadese; dai conservatori scozzesi, guidati da Ruth Davidson, ai “guru” dell’hi-tech americano, come Zuckerberg e Tim Cook, fino a scrittori, intellettuali e docenti universitari: tutti, sia pure con diverse sfumature, contestano il blocco per 4 mesi dell’immigrazione in Usa deciso dal presidente Trump e contro la black list di 7 paesi islamici. Il presidente americano lo difende, anche se ora fa un mezzo passo indietro. Comunque Trump attacca il modello Europa.
Dalle nazioni “colpite” dall’ordine esecutivo di Trump, invece, arrivano le prime contromisure: l’Iran ha già deciso di impedire l’ingresso nel proprio territorio dei cittadini americani, l’Iraq sembra vicino a varare analoghe misure.

Giudice federale di Brooklyn blocca i rimpatri coatti
Una prima breccia legale nell’ordine di Trump è arrivata nella notte tra sabato e domenica dalla giudice Ann M. Donnelly, del tribunale del distretto federale di Brooklyn, che ha stabilito che i rifugiati o altre persone interessate dalla misura e che sono arrivati negli aeroporti statunitensi non possano essere espulsi. Si calcola che l’ordinanza di emergenza della magistrata interessi tra le 100 e le 200 persone, fermate negli aeroporti Usa o in transito e interviene solo su una parte dell’ordine esecutivo. La giudice non ha però stabilito che queste stesse persone debbano essere ammesse negli Stati Uniti né si è espressa sulla costituzionalità dell’ordine esecutivo del presidente. Per loro si prospetta quasi la situazione del protagonista del film The terminal, di Steven Spielberg, con l’impossibilità di uscire dall’aeroporto. Per la Homeland Security, il numero totale delle persone fermate negli aeroporti sarebbe al momento di 109.

Gran Bretagna
Theresa May si è dichiarata “non d’accordo” con la decisione di Trump di bloccare l’immigrazione negli Stati Uniti. Una breve dichiarazione, resa nota dal suo portavoce, per ribadire il “non gradimento del Regno Unito” a questa politica anti-rifugiati varata dal presidente americano. Theresa May era stata pressata dai deputati e lord britannici affinché si smarcasse dalla linea dura presa da Trump, linea dura che in un primo momento la premier del Regno Unito aveva in qualche modo avallato. Il cambio di fronte sembra sia dovuto anche al fatto che i provvedimenti del presidente americano possano colpire cittadini britannici con doppia nazionalità. May ha ordinato ai suoi ministri degli Esteri e dell’Interno, Boris Johnson e Amber Rudd, di parlare al telefono con i loro omologhi statunitensi in merito alle restrizioni imposte dagli Usa.

Germania
Angela Merkel ha atteso più a lungo, ma il suo commento è giunto stamattina attraverso il suo portavoce: la cancelliera, ha detto Steffen Seibert, “ritiene che persino nella battaglia necessariamente risoluta contro il terrorismo non sia giustificato sospettare di persone di determinate origini o fedi religiose”. Merkel, fa sapere Berlino, ha espresso il proprio rammarico per la decisione di Trump direttamente al presidente americano nel corso della telefonata avuta ieri con lo studio ovale.

Canada
“A chi fugge dalle persecuzioni dal terrore e dalla guerra, sappiate che i canadesi vi daranno il benvenuto, non importa quale sia la vostra fede. La diversità è la nostra forza #welcome to Canada”. Questo il tweet con cui il primo ministro canadese Justin Trudeau ha indirettamente risposto alla sospensione degli ingressi negli Stati Uniti dei rifugiati decisa da “Profondamente rammaricato” dalla stretta sui controlli sui passeggeri provenienti da Paesi islamici si è detto anche il governo dell’Indonesia, nazione non inclusa nel bando di Trump, ma pur sempre la più grande comunità musulmana del mondo. Parole dure anche da parte di Hillary Clinton, la candidata democratica alla presidenza statunitense che è stata sconfitta da Trump: “Io sto con tutte quelle persone che stasera manifestano per difendere i nostri valori e la nostra Costituzione. Noi siamo così”, scrive su Twitter.

La risposta di Trump
A fronte di tante prese di posizione e critiche, Trump su Twitter attacca il modello europeo dell’apertura e dell’accoglienza: “Il nostro Paese – twitta Trump – ha bisogno di confini forti e di controlli rigidi, ADESSO. Guardate a quello che sta succedendo in Europa e, anzi, in tutto il mondo – un caos orribile!”.
In seguito la Casa Bianca diffonde un comunicato in cui sembra volersi giustificare e per farlo cita addirittura alcune decisioni prese dall’amministrazione Obama come fonte di ispirazione.

La protesta di intellettuali e imprese
Alle voci dei leader dei paesi alleati degli Stati Uniti contrarie alla politica anti-immigrazione di Trump si uniscono quelle di intellettuali, capi di grandi aziende multinazionali, i “guru” dell’hi-tech americano, premi Nobel come Malala. Il segretario generale della Lega Araba, Ahmed Aboul Gheit, si è detto “profondamente preoccupato”. L’Iran ha convocato l’ambasciatore svizzero a Teheran (che rappresenta gli interessi americani nel Paese) e gli ha consegnato una lettera di protesta contro lo stop agli ingressi, diretta a Trump.
Lo scrittore Stephen King esorta i cittadini statunitensi a chiamare i propri deputati e senatori per convincerli a contrastare la linea anti-immigrati decisa da Trump. Mark Zuckerberg, presidente di Facebook, si è già duramente espresso contro il presidente americano: “Se non ci fossero stati gli immigrati in Usa non ci sarebbe stata questa grande nazione con la sua forza economica, politica e sociale”, ha scritto in un post pubblicato nella sua pagina sul social network. Alle parole di Zuckerberg ha subito fatto eco Tim Cook, Ceo di Apple: “La nostra azienda non esisterebbe senza l’immigrazione. Senza l’apporto di tutte le intelligenze, senza discriminazioni religiose, la nostra nazione non potrà prosperare e portare avanti l’innovazione”, ha scritto in un tweet, citando successivamente anche Abram Lincoln.
Il co-fondatore e amministratore delegato di Uber, Travis Kalanick, ha definito “sbagliato e ingiusto” il bando imposto da Trump. Ma l’ha fatto soltanto dopo che tantissimi clienti avevano cancellato l’app dai loro smartphone per contestare la decisione della società di fornire passaggi dall’aeroporto JFK nonostante l’appello dei tassisti di New York al boicottaggio. La marcia indietro di Kalanick, che è tra i consiglieri economici di Trump, potrebbe però essere arrivata tardi: l’hashtag #DeleteUber (cancella Uber) ha fatto trend su Twitter da sabato notte a tutta domenica.
Anche dal punto di vista legale si profila una battaglia fino ai più alti livelli della giustizia americana. Un ricorso alla Corte Suprema Usa sembra sia imminente ed è basato sulla violazione proprio della Costituzione statunitense che stabilisce il diritto ad esprimere la propria appartenenza religiosa senza dover subire persecuzioni.

Controllo sui contatti
Trump potrebbe andare anche oltre. Secondo quanto rivelato da alcune fonti alla Cnn, il direttore per gli affari politici della Casa Bianca, Stephen Miller starebbe discutendo con i funzionari del dipartimento alla Sicurezza interna la possibilità di chiedere ai visitatori stranieri sono i siti web ed i social media sui quali sono soliti navigare e di condividere i loro contatti sul cellulare. In caso di un loro rifiuto, potrebbe essere negato loro di entrare negli Stati Uniti. Le stesse fonti hanno precisato alla Cnn le discussioni sarebbero ancora ad una fase iniziale.

Viaggiatori bloccati
Le misure di Trump hanno avuto conseguenze già ieri. E’ già attivo nei fatti il divieto di ingresso negli Stati Uniti per quanti provengano da 7 paesi a maggioranza islamica: Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen.  Al Cairo a una famiglia di iracheni è stato impedito di salire a bordo di un volo EgyptAir per New York. Marito, moglie e due figli, già in possesso del visto, sono stati informati che le nuove regole non potevano consentire l’imbarco. Situazione analoga ai banchi delle compagnie internazionali a Teheran.
Sul decreto di Trump avvocati e gruppi per la difesa dei diritti umani stanno attivando azioni legali, le prime in conseguenza di quanto accaduto a due cittadini iracheni fermati all’aeroporto J.F. Kennedy di New York. Secondo quanto riportato dal New York Times, uno dei due iracheni fermati lavorava da dieci anni per il governo Usa, mentre il secondo intendeva raggiungere la moglie, impiegata da un’azienda statunitense. I loro legali sostengono che entrambi erano in possesso di un visto di ingresso valido e stanno chiedendo il loro rilascio per arresto illegale. Inoltre le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno chiesto che la loro causa venga classificata come class action, in modo da poter rappresentare tutti i rifugiati fermati dopo la firma dell’ordine esecutivo. Nella tarda serata italiana, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters, a uno dei due iracheni è stato consentito di entrare negli Stati Uniti. Poco dopo, anche il secondo iracheno bloccato ha potuto lasciare l’aeroporto.

Casa Bianca: solo 109 fermati
La Casa Bianca difende l’ordine esecutivo del presidente. “Non è caos”, ha detto alla Nbc il capo dello staff Reince Priebus, aggiungendo che ieri 325 mila viaggiatori sono entrati negli Usa e solo 109 sono stati fermati. “Gran parte di loro sono usciti. Abbiamo ancora una ventina di persone che restano detenute”, ha sostenuto, prevedendo che saranno presto rilasciate se sono in regola.

Il caso degli equipaggi degli aerei
C’è un ulteriore caso provocato dal blocco dell’immigrazione in Usa. Molti equipaggi di aerei provenienti dal Medio Oriente sono composti da personale nato nei paesi inseriti nella “black list” di Trump. Per questo non possono entrare negli Stati Uniti. C’è quindi il rischio che molti voli possano venire cancellati.

I paesi islamici dove Trump ha interessi economici esclusi dalla “black list”
E sale anche la protesta per l’esclusione di alcuni paesi islamici, da cui sono provenuti molti dei terroristi responsabili di attentati gravissimi contro cittadini americani, dalla black list decisa da Trump. Sono proprio quei paesi dove il tycoon ha importanti interessi economici. In un tweet, James Melville ad esempio fa il confronto con gli altri Stati messi al bando dal presidente degli Stati Uniti in relazione alle azioni violente contro gli Usa. Dal confronto emerge un dato sconcertante: le nazioni escluse dalla lista nera sono proprio quelle che hanno dato i natali agli autori delle più efferate stragi contro cittadini americani.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *