Studentesse e madri, sono donne le protagoniste della protesta contro il regime islamico. Nel nome di Mahsa Amini
Le ragazze di Teheran si tagliano i capelli. Le ragazze di Teheran e quelle di Mashhad, Tabriz, Isfahan, Kerman, Qom e di decine di altre piccole grandi città su una mappa persiana che è sconfinata nelle nostre giornate di settembre. Lo fanno per Mahsa Amini, 22 anni, che era «mal velata» e ha pagato con la vita la sua «insubordinazione» alle regole estetico-ideologiche degli ayatollah, un regime che — ancora — cerca di opprimere le donne, scorgendo in ogni compromesso, in ogni ciuffo, l’inizio della propria fine. Lo fanno per la giovane di origine curda, che dalla provincia era in gita nella capitale quando è stata fermata all’uscita dal metro e manganellata sul furgoncino delle forze dell’ordine. E lo fanno per sé stesse, per la propria testa, per tenerla sgombra e lontana dalla cappa oscura in cui la “polizia della moralità” islamica cerca di avvolgerle.
Sta succedendo in queste settimane, è già successo anni fa. Nel 2019, 2017, 2009. Ma questa volta, scrivono gli osservatori internazionali, le donne sono più numerose: guidano le proteste, bruciano gli hijab, danzano, cantano, a decine hanno affrontato la morte. Studentesse e madri, sollevano la spada antica della libertà individuale in una terra che ha conosciuto regine guerriere. La puntano contro il muro della legge che nel 1979, con l’ascesa di Khomeini, stabilì l’obbligo del velo sul capo e di abiti larghi «che nascondano le forme femminili». Con pettini e forbici le attiviste hanno invaso la geografia fluida dei social network, lo ha raccontato Viviana Mazza sul Corriere. Messaggere di un contrappasso: il rito del rasoio – che ovunque nel mondo serve a inquadrare gli eserciti, a chiamare le reclute alla sottomissione – è stato capovolto dalle ragazze di via Rivoluzione.
Non avrete il potere di piegarci né di mettere in piega i nostri capelli, sembrano dire, perché saremo noi a tagliarli o scioglierli, a stabilire quale immagine si addice a ciò che siamo. Da tempo ormai la società civile iraniana scalpita, la bandiera di Mahsa viene issata sulle architetture di un potere che Ali Khamenei, 83enne guida spirituale, prova a sigillare con parole di cemento. Ha scritto su Twitter l’attrice Taraneh Alidoosti: «Mahsa Amini, ripetete il suo nome, non dimenticatela e non dimenticate le iraniane». E Ashgar Farhadi, regista premio Oscar, ha postato la foto dell’arrestata intubata sul lettino d’ospedale, giù in coma irreversibile: «Tu sei più sveglia di noi, noi letargici complici».
Mahsa non è stata stroncata da un infarto perché debole di cuore, come i bollettini di Stato vorrebbero formalizzare per spegnere l’onda di rabbia e libertà. Il suo battito è stato interrotto da chi attribuisce a sé il diritto di decidere quali vestiti, pensieri, desideri si addicano al corpo di una donna. Ma proprio i corpi delle donne potrebbero svelare che l’inizio della fine è cominciato.