Suella Braverman, ministra degli Interni britannica, di famiglia d’origine indiana, è la più strenua sostenitrice del progetto di deportare in Ruanda gli immigrati illegali
Una figlia di immigrati contraria all’immigrazione: è l’apparente paradosso di Suella Braverman, ministra degli Interni britannica. Lei, di famiglia d’origine indiana, è la più strenua sostenitrice del progetto di deportare in Ruanda gli immigrati illegali: tanto da guadagnarsi il soprannome di «Crudelia».
Ma qualche giorno fa è riuscita ad andare anche oltre: in un discorso a Washington in cui ha sostenuto la necessità di rivedere in maniera restrittiva la Convenzione Onu sui rifugiati, ha sostenuto che l’immigrazione rappresenta una «minaccia esistenziale» per l’Occidente e che «l’erroneo dogma del multiculturalismo» si è rivelato fallimentare. Parole che hanno messo a disagio perfino diversi esponenti del suo stesso partito conservatore, che ne hanno denunciato il «linguaggio incendiario» e l’hanno accusata di «fomentare l’odio».
È facile osservare che la Gran Bretagna, con un primo ministro di origine indiana, un sindaco di Londra e un premier scozzese musulmani di origine pachistana, rappresenta uno dei più riusciti modelli di integrazione, testimoniata anche dal milione e passa di cittadini di razza mista, un caso unico al mondo. Ma il problema sorge quando viene rimproverato a Suella — come è stato fatto — di avere idee che sembrano in contraddizione col suo background di «figlia dell’Impero britannico», come lei stessa si è definita: una critica che appare insidiosamente razzista, come se l’origine etnica e il colore della pelle imponessero determinate posizioni politiche, quasi che lei dovesse ringraziare di essere lì e non sputare invece sugli immigrati. E invece è un riflesso bianco e un po’ paternalistico pensare che una persona di colore debba essere necessariamente «liberal»: le idee andrebbero valutate — e criticate — per quello che sono, non per l’etnia o la provenienza familiare di chi le esprime.