21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Enrico Marro

La pensione? Un miraggio. La generazione nata negli anni Ottanta rischia di uscire dal mondo del lavoro dopo i 73 anni. Una prospettiva carica di preoccupazioni


La generazione post 1980
C’è una generazione, quella di chi è nato dal 1980 in poi, che è investita in pieno da tutte le riforme delle pensioni. Per costoro, il combinato disposto del calcolo contributivo, introdotto dalla Dini per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995 , e il forte aumento dei requisiti per la pensione scattato con la riforma Fornero del 2011, ha aperto una prospettiva carica di preoccupazioni. Il governo sta ragionando su questo perché si è resoconto che, come ha detto Stefano Patriarca, consigliere economico della presidenza del Consiglio in un recente seminario, i lavoratori che stanno integralmente nel sistema contributivo, cioè che hanno contributi solo dal primo gennaio 1996 in poi (e devono quindi essere nati dal 1980, considerando anche chi ha cominciato a lavorare a 15 anni) sono quasi la maggioranza, considerando che «il 55-60% degli attuali lavoratori ha fino a 40-45 anni d’età».

Le tre vie
Per la generazione post 1980, il regime pensionistico vigente, ha sottolineato Patriarca, è completamente diverso da prima, ma non ce n’è piena consapevolezza. Perciò l’economista ha riepilogato le regole. Per chi sta completamente nel contributivo ci sono tre strade per la pensione. La prima, quella normale, serve per l’assegno di vecchiaia. I requisiti sono: almeno 20 anni di contributi; un’età minima che, per chi è nato nel 1980, sarà prevedibilmente di 69 anni e 5 mesi (considerando gli adeguamenti automatici alla speranza di vita); e aver maturato una pensione non inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale (oggi 640 euro netti).
La seconda via di pensionamento è dedicata appunto a coloro che non riescono a raggiungere questo minimo, spesso perché hanno subito molta disoccupazione e salari bassi. Un lavoratore classe 1980 che si trovi in queste condizioni, considerando gli adeguamenti automatici, potrà andare in pensione posticipata solo a 73 anni e 5 mesi. La terza possibilità è la pensione anticipata: si può lasciare il lavoro 3 anni prima dell’età di vecchiaia – nel nostro esempio a 66 anni e 5 mesi – se si hanno almeno 20 anni di contributi e l’importo maturato non è inferiore a 2,8 volte l’assegno sociale (oggi 1.050 euro netti).

Premiati i ricchi
È facile vedere come questo sistema, paradossalmente, premi coloro che fanno i lavori migliori (stabili e ben pagati), consentendo solo a loro di ritirarsi prima, e punisca quelli più deboli, costretti alla pensione posticipata. Il tutto, ha sottolineato Patriarca, aggravato dal fatto che per la generazione post 1980 non c’è più l’integrazione al minimo, cioè quel contributo dello Stato per portare le pensioni troppo basse a un importo base mensile (oggi, 502 euro al mese).
Tutto ciò che abbiamo detto giustifica il fiorire di idee per rimettere mano alla riforma Fornero. Ma qui si entra in un terreno a rischio. La Fornero ha avuto infatti il merito di realizzare un serio aumento dell’età effettiva di pensionamento, ponendo fine all’eccessivo gradualismo della riforma Dini. Basti dire che nel ventennio 1997-2016, nel settore privato, sono state liquidate 3,4 milioni di pensioni di anzianità a lavoratori con età media di 57 anni e 9 mesi e 3,5 milioni di pensioni di vecchiaia a persone con età media di 63 anni. Solo dopo la Fornero le due età sono salite rispettivamente, nel 2016, a 60 anni e mezzo e a 66 anni e 4 mesi. Risultati rispetto ai quali sarebbe sbagliato tornare indietro. Così come va corretta la tesi che il calcolo contributivo realizzi sempre un taglio drammatico delle pensioni. Le elaborazioni della Ragioneria dello Stato mostrano che il tasso di sostituzione, cioè l’importo della pensione netta rispetto all’ultima retribuzione, non è inferiore nel contributivo rispetto al vecchio «retributivo», a parità di anni di contributi versati.

Le proposte
Poiché i tassi di sostituzione del contributivo sono più che soddisfacenti per le carriere piene, si potrebbe concludere che basterebbe favorire le assunzioni stabili e un modello contrattuale che sostenga i salari e la produttività per risolvere i problemi. E questo va sicuramente fatto, dal governo e dalle parti sociali. Ma sappiamo anche che il mercato del lavoro è profondamente cambiato e che la rivoluzione Industria 4.0 potrebbe polarizzare ulteriormente l’occupazione, aumentando la distanza tra i lavori continui e ben pagati e quelli discontinui e poveri.

Di qui le proposte tecniche sul tavolo del confronto governo-sindacati (giovedì il prossimo incontro). Si va dalla pensione minima di garanzia di 650 euro (in pratica si tornerebbe a un forma di integrazione a carico dei contribuenti delle pensioni sotto un certo minimo) ai contributi figurativi, cioè pagati dallo Stato, per i periodi di disoccupazione. Dalla eliminazione delle soglie di 1,5 volte e di 2,8 volte il minimo per accedere rispettivamente alla pensione di vecchiaia e a quella anticipata alla costruzione di un sistema di redditi ponte verso la pensione per i segmenti più deboli del lavoro. È un sentiero stretto, direbbe il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ma va percorso, per arrivare ad avere un sistema più equo, senza scardinare la riforma Fornero.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *