Fonte: La Stampa
di Fabio Martini
Il premier tra lealtà al leader Pd e difficoltà per le coalizioni
In queste ore gli amici, i colleghi e gli opinion leader hanno ripreso a tambureggiare, a chiederglielo direttamente: «Paolo, che fai? Ci porti tu alle elezioni al posto di Matteo?». Non è la solita litania dei giornali e dei retroscena più stantii. Paolo Gentiloni lo sa: stavolta la forza delle cose potrebbe invertire un destino per ora segnato. La striscia di sconfitte del Pd non si ferma più e Matteo Renzi fatica ad invertire un trend che sembra essersi trasformato in un piano inclinato. Per davvero potrebbe scoccare l’ora del presidente rassicurante, di “Paolo il freddo”. Come candidato del Pd a palazzo Chigi.
Ma lui non ne vuole sapere. A chi bussa risponde senza scomporsi, con quell’approccio sdrammatizzante che ha contribuito alla sua popolarità. Spiega Gentiloni: «Il governo governa e abbiamo davanti un mese e mezzo di lavoro. Intendo chiudere in modo ordinato la legislatura e consegnare al governo che uscirà dalle elezioni una situazione economica senza camicie di forza». Il messaggio è chiaro. L’imperativo categorico per Paolo Gentiloni è “tenere” sulla legge di Stabilità, evitare stravolgimenti parlamentari. Ma davanti alle pressioni di chi lo vorrebbe in campo nella battaglia elettorale, il presidente del Consiglio risponde senza equivoci: «Io candidato a dispetto di Matteo? Sono indisponibile». È un no netto e Gentiloni lo ripeterà anche nei prossimi giorni a chi, in via informale, insisterà con lui.
Per tanti motivi. Il primo riguarda la lealtà a Matteo Renzi, che resta il segretario del partito di maggioranza relativa e che, per il momento, sembra intenzionatissimo a guidarla lui in prima persona la campagna elettorale del Pd. In secondo luogo Gentiloni sa bene quanto siano effimere le aperture del ministri Franceschini e Orlando verso una coalizione elettorale da costruire con l’Mdp di Bersani e D’Alema. Contro l’idea di una coalizione ieri hanno sparato, al termine della direzione di Mdp, sia Bersani sia D’Alema.
E Gentiloni sa bene quel che il suo amico Arturo Parisi spiega così: «Nessuno dei termini che abbiamo usato nel ventennio passato ha più il senso di prima. Né quello di candidato premier, né quello di coalizione. Quelle della legge Rosato non sono coalizioni per il governo, ma semplici apparentamenti elettorali pensati innanzitutto per massimizzare i seggi conquistati e spartirli tra i partiti apparentati ai danni degli altri. Sulla scheda l’elettore non troverà più la domanda su chi vuole che guidi il governo del Paese, ma a quale partito delega questa risposta».
Dunque, il candidato premier è una finzione e anche le aperture a Gentiloni da parte dei capigruppo parlamentari del Pd, Ettore Rosato e Luigi Zanda, vengono lette al Nazareno come l’avvio di una trattativa sulle liste elettorali, un escamotage per alzare il prezzo. Tutte le aree non renziane – soprattutto gli amici di Franceschini e di Orlando – sanno che nel Pd di Renzi è destinata a saltare la legge non scritta di Prima e Seconda Repubblica, quella per cui i congressi di partito servivano a dividere – tra le varie componenti – le quote interne, negli organismi dirigenti e nelle liste elettorali.
Certo, se Renzi dovesse cambiare idea, se gli altri ministri che coltivano legittime ambizioni (Marco Minniti, Graziano Delrio, Dario Franceschini) gli lasciassero il passo, al pragmatico Gentiloni non resterebbe che prendere atto. Ma il presidente del Consiglio sa che la vera partita per Palazzo Chigi si giocherà dopo le elezioni politiche e sarà un’alchimia da emicrania: quale sarà il partito che, da solo o in coalizione avrà più voti e potrà avanzare candidature plausibili? A chi gli fa notare che lui è stimato da Berlusconi, il presidente del Consiglio risponde così: «Ho grande rispetto per lui, ma il centrosinistra dovrà vincere le elezioni». Come dire: se il Pd non avrà i voti, quello della premiership è un gioco delle illusioni.