All’estero. Dopo la pandemia ripartita la ricerca di un futuro diverso. Saldo negativo di 377mila in 13 anni, persi 134 miliardi di capitale umano
Non c’è solo la “glaciazione demografica” a pesare sui giovani. Dopo il rallentamento legato alla pandemia del 2020 e 2021 è ripartita la fuga all’estero dei nostri ragazzi. Sono almeno 100mila nel 2022 e 2023 che hanno lasciato l’Italia, due terzi più di quelli che sono tornati (circa 37mila). Il fenomeno è sottostimato, ma una serie di interessanti focus realizzati dalla Fondazione Nord Est, diretta dall’economista Luca Paolazzi, ci restituisce una fotografia reale e aggiornata del problema: nel periodo 2011-2023, vale a dire in tredici anni, nella fascia d’età 18-34 anni il totale delle cancellazioni anagrafiche per l’estero è salito a circa 550mila, contro 172mila iscrizioni (rientri) per un saldo negativo di 377mila giovani. Il deflusso assoluto arriva dal Settentrione che nel 2011-2023 ha mostrato un saldo negativo di 80mila giovani dal Nord Est e 100mila dal Nord Ovest. Una performance di gran lunga superiore al dato Meridionale, -141mila giovani (per molti ragazzi del Sud il trasferimento al Nord assume i contorni dell’emigrazione estera).
Si tratta complessivamente di una emorragia di giovani: ponendo in relazione i saldi cumulati alla popolazione residente, la nuova emigrazione erode il 4,4%, il 4,8%, il 4,1% dei giovani rispettivamente del Nord-Ovest, del Nord-Est e del Sud. Valori che andrebbero triplicati, complice la denatalità e il fatto che molti ragazzi mantengono la residenza in Italia. Nel 2023 la Lombardia ha il saldo peggiore, -5.760 giovani (-63.639 nei tredici anni, 2011-2023), seguita dal Veneto, -3.759 (-34.896 nei tredici anni considerati). L’emigrazione sta aggravando il calo dei giovani italiani scesi da 13,5 milioni nel 2000 a 9,1 milioni nel 2024.
Ma non solo. La Fondazione Nord Est, rielaborando dati sull’investimento pubblico in istruzione e quello delle famiglie per ogni figlio fino al termine degli studi, ha calcolato anche il valore economico del capitale umano uscito con i giovani 18-34enni emigrati. Nei tredici anni è risultato pari a quasi 134 miliardi di euro (133,9 per l’esattezza), con la Lombardia in testa (22,8 miliardi) seguita da Sicilia (14,5) e Veneto (12,5). Nel biennio 2021-2022 il valore annuo del capitale umano uscito con i giovani è stato di 8,4 miliardi a prezzi del 2023. Si tratta di un investimento di cui (ahinoi!) beneficiano i Paesi di destinazione, che sanno mettere a frutto energia, valori, saperi, voglia di imparare e crescere dei nostri ragazzi. Insomma, nella caccia globale dei talenti l’Italia è preda.
Analizzando l’identikit dei giovani expat emergono poi almeno altri tre dati interessanti, e in un certo senso inediti. Il primo è che chi va via dall’Italia non è solo laureato. Se nei tredici anni (2011-2023) 550mila giovani hanno lasciato il Paese, poco più del 30% è senza diploma di scuola media superiore, e un altro 30% è al più diplomato. Oltre il 40% è laureato, una percentuale in crescita visto che fino al 2018 la loro quota era inferiore al 30%. L’emorragia dei giovani “colletti bianchi” è particolarmente intensa nelle regioni settentrionali (dove pure le occasioni di impiego sono maggiori).
Il secondo aspetto da considerare è che non si emigra solo per uno stipendio più alto. Ma le motivazioni (e le condizioni) sono molto più articolate. In base alle caratteristiche socioeconomiche e culturali di partenza infatti la Fondazione Nord Est ha censito due categorie di giovani emigrati: per necessità e per scelta. Ebbene, in base a questo sondaggio, un po’ più di un quarto (28%) di giovani expat parte per necessità, mentre poco meno di un quarto (23%) per scelta. I giovani del primo gruppo sono indotti dalla ricerca di migliori opportunità di lavoro (26,2%) e dal desiderio di una migliore qualità della vita (23,2%). Invece tra chi emigra per scelta spicca l’importanza delle opportunità di studio o formazione (29,6%), oltre a quelle di migliori opportunità di lavoro (21,0%). Tra le motivazioni addotte di chi decide di andare all’estero intorno al 10% lo fa per ricercare un impiego con un salario più elevato (l’aspetto retributivo quindi conta, certo, ma non è prevalente. Tutt’altro). Il terzo aspetto particolarmente interessante è che un po’ meno della metà di chi ha lasciato l’Italia per necessità svolge mansioni per cui le imprese italiane denunciano vacancy (tecnico, qualificato nei servizi, operaio specializzato, operaio semi specializzato, lavoratore non qualificato). In numeri assoluti si tratta di oltre 130mila giovani, la cui assenza ha un impatto diretto sulle nostre imprese, con un mismatch che ormai ha raggiunto, in media, un’assunzione su due.
Già tutto questo basterebbe ad accendere una spia rossa. Ma se guardiamo anche agli arrivi ci rendiamo conto della gravità dell’allarme. In tutt’Italia giunge un giovane straniero ogni 8,5 coetanei italiani che espatriano verso i principali paesi nostri competitor. Nei tredici anni (2011-2023) i primi dieci paesi di destinazione dei giovani italiani sono stati Regno unito, Germania, Svizzera, Francia, Spagna, Brasile, Usa, Paesi Bassi, Belgio, Australia. In questi paesi sono emigrati 205mila giovani dal Nord Italia, che ha visto arrivare appena 67mila giovani cittadini di queste stesse nazioni, 28mila senza il Brasile. Insomma, anche qui, una perdita netta di capitale umano, frutto, stavolta, di una “scarsa attrattività” che l’Italia non può più permettersi.