Fonte: Corriere della Sera
di Lauretta Colonnelli
Dallo splendore di San Clemente al monastero che incantò anche Cimabue: le meraviglie delle basiliche romane con qualche interessante deviazione di percorso
Già mille anni prima del Giubileo indetto da Bonifacio VIII, Roma cominciò a essere invasa da migliaia di pellegrini provenienti da tutta Europa. Accadeva il 29 giugno di ogni anno. Il poeta Prudenzio, vissuto nella seconda metà del quarto secolo, descrive in un carme epico le folle concitate che si dividevano, correndo e pregando, tra la basilica di San Pietro sulla riva destra del Tevere e quella di San Paolo sulla riva sinistra. Le fonti storiche raccontano che all’ospitalità dei pellegrini erano riservati i monasteri. E che tra il quarto e il nono secolo ne furono costruiti cinquantasei, dentro e fuori le mura della città, presso i santuari più importanti. Ma fino a qualche anno fa non si era trovato alcun riscontro archeologico a queste notizie. Finché le rovine del più antico monastero della città non sono riemerse tre metri sotto terra a fianco della basilica di San Paolo.
I pellegrini di oggi, nel cammino tra le quattro basiliche papali che in questi giorni aprono le rispettive Porte sante, potranno dare un’occhiata alla grande sala con il pozzo che doveva avere funzioni di refettorio, al lungo corridoio con vani di servizio, ai resti del monumentale colonnato di età altomedievale che gli studiosi hanno identificato come il porticus descritto da Procopio nelle vicende della guerra gotica del 537-556. Questo portico era stupefacente. Procopio dice che il santuario di San Paolo, nonostante si trovasse fuori le mura, restò inviolato, difeso «da un portico che dalla città va fino al tempio e da molti altri edifici che ivi presso rendono il luogo di non facile attacco». La costruzione, che era lunga quattro chilometri, è stata ricreata in uno dei disegni esposti nelle bacheche collocate in vari punti dell’area archeologica.
Da San Paolo a San Giovanni in Laterano, dove il 13 dicembre si inaugura il nuovo Museo del Tesoro Lateranense, curato e diretto da Sandro Barbagallo. Raccoglie grandi croci d’oro da processione risalenti al Quattrocento, numerose reliquie e i doni che i presidenti francesi offrono appena eletti quando, per una tradizione secolare ereditata dai sovrani, arrivano a prendere possesso dello scranno di protocanonico nella cattedrale di Roma. Fresca di restauro si presenta la Scala Santa, alle spalle della basilica, dove nel giugno scorso si è conclusa la ripulitura del ciclo pittorico del Sancta Sanctorum, l’antica cappella privata del papa prima del suo trasferimento in Vaticano. Progettata da Domenico Fontana e decorata dai cosiddetti pittori sistini, fu tra le più venerate nel Medioevo.
Imboccando via di San Giovanni in Laterano in direzione del Colosseo, merita fare una sosta nella piccola basilica di San Clemente. È uno degli esempi più eclatanti di come Roma sia fatta a strati. L’attuale edificio, costruito intorno al 1100 e rimaneggiato poi in stile barocco, poggia sull’antica chiesa voluta da Costantino nel IV secolo d.C.; la quale a sua volta fu innalzata su una domus romana del III secolo d.C.. La domus era stata costruita sul perimetro di un edificio di età repubblicana che probabilmente faceva parte dell’antica Zecca di Roma (IV secolo a.C.). La prima basilica, riportata alla luce a partire dal 1858, è detta oggi basilica inferiore. Qui resiste uno dei rarissimi affreschi di epoca medievale rimasti nella capitale, considerato anche il primo esempio di narrazione a fumetti. Racconta la vicenda di san Clemente e Sisinnio, con le parole che escono dalle loro bocche. «Fili de le pute, trahite!, Gosmari, Albertel, trahite! Falite dereto co lo palo, Carvoncelle!» (Figli di puttana, tirate! Gosmario, Albertello, tirate! Carvoncello, spingi da dietro con un palo!), grida Sisinnio, prefetto di Roma. Avendo sospetti sulla moglie Teodora, l’aveva seguita di nascosto accompagnato dai servi Gosmario, Albertello e Carvoncello.
Nel momento in cui lei entrò in una catacomba per assistere alla messa celebrata da papa Clemente, la raggiunse l’irato marito che ordinò ai servi di legarla insieme al pontefice. I servi, accecati come il loro padrone ad opera del santo, legarono invece e cercarono di trascinare due pesanti colonne di pietra. Da cui l’imprecazione di Sisinnio. Fumetto che esce dalla bocca di san Clemente: «Duritiam cordis vestri, saxa trahere meruistis» (A causa della durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare sassi). Ma la basilica inferiore riserva anche un’altra sorpresa: vi si ascolta il gorgoglio di un fiumicello che scorre in profondità. Lo sentì Giuseppe Ungaretti nel 1943, nella città sconvolta dall’occupazione nazista, e ne trasse conforto, come testimoniano i versi «da pertinaci fiumi risalito / fu allora che intravvidi / perché m’accende ancora la speranza».
Con una piccola deviazione si raggiunge via dei Santi Quattro Coronati e al civico 20 si incontra il convento di clausura delle monache agostiniane, dove su appuntamento si può visitare quella che è stata definita la Cappella Sistina del Medioevo, riscoperta nel 1997 dalla storica dell’arte Andreina Draghi nell’antica Aula Gotica trasformata dalle suore in stireria. Raschiando l’intonaco, Draghi riportò alla luce un immenso ciclo risalente alla metà del Duecento. Vi sono raffigurate le allegorie dei dodici mesi raccontate come in un calendario, con scene quotidiane di vita rurale, i vizi e le virtù, le stagioni e i venti, i paesaggi marini e i segni zodiacali, i pianeti e le costellazioni, la pazienza di Giobbe e l’umiltà di re David. Un intero microcosmo che riflette l’ordine superiore dell’armonia divina. Attribuito in gran parte al cosiddetto Terzo Maestro di Anagni, un pittore formidabile per la forza espressiva delle sue figure abbinate a un impasto sapiente dei colori e a una riflessione sulla tradizione classica. Gli storici suppongono che Cimabue, durante il suo viaggio a Roma, sia entrato almeno una volta nell’Aula, dove all’epoca veniva amministrata la giustizia dello Stato Pontificio. E che abbia scoperto un nuovo linguaggio pittorico tendente al realismo, diverso da quello imposto dall’egemonia bizantina. E forse è da qui che questo linguaggio arrivò nel cantiere di Assisi, considerato fino ad oggi la culla della nuova arte italiana.