E c’è la presa di distanza da ogni sconfitta. Lontani i tempi del presidente del Consiglio che gestì il Covid, il ruolo a cui è più affezionato
«Non me la sento». Nel mondo che non c’è, Andrea Orlando tira dritto per la sua strada, ignora il veto di Giuseppe Conte e il conseguente capo chino della sua segretaria nazionale, forse vince in Liguria, sicuramente diventa un leader di statura nazionale, la dimensione alla quale in fondo tutti i politici ambiscono. Invece, la notte di venerdì 27 settembre, nel ristorante genovese diventato rifugio del suo stato maggiore, il candidato del centrosinistra obbedisce al riflesso pavloviano della disciplina di partito, pur sapendo che in quel momento sta perdendo le elezioni.
Ma ci siamo andati vicini. Erano i giovani del suo staff, romani e liguri, a dirgli basta, non ne possiamo più, quello là ci ha rotto le scatole con le sue pose da statista. Succederà una delle prossime volte, comunque. Perché il tempo passa per tutti, in politica va ancora più veloce, e rende sempre più visibili le crepe sul monumento che l’attuale capo dei Cinque Stelle ha eretto a sé stesso in ricordo della sua esperienza di governo all’epoca del Covid. Mentre su quella precedente, in condominio con Matteo Salvini, tende spesso a rimuovere con l’abituale indulgenza che riserva nei propri confronti. Eppure, quella prima esperienza a Palazzo Chigi, e il modo in cui ci è arrivato, rivelavano già molto di una personalità cangiante, che oltre il proprio recinto personale non fa grande distinzione tra destra e sinistra, tra questioni di principio e convenienza spicciola.
La notte del 4 marzo, mentre Davide Casaleggio e Luigi Di Maio si chiudono in una stanza di hotel per decidere con chi governare, entra lui. «Se volete, sento i miei amici del Pd». Tre mesi dopo, è alla guida di un governo con la Lega. Firma ed elogia il decreto Sicurezza che l’anno dopo, appena giunto via Papeete al governo con il Pd, definirà come un errore e prometterà di riformare se non abolire. Quanto a Salvini, a mai più rivederci, è stato un peccato di gioventù, «oggi non ci prenderei neppure un caffè» dice al termine di una delle tante litigate con l’ex sodale. Ma anche senza espresso o moka, tratta con lui di nascosto al Pd alleato di governo per fare di Elisabella Belloni il successore di Mattarella, operazione bruciata per un suo peccato di vanità, che lo porta a vendere la pelle della candidata a Beppe Grillo presso il quale sente di avere bisogno di guadagnare punti, prima che l’operazione sia chiusa.
Dopo avere ricevuto la benedizione di Donald Trump all’amico «Giuseppi» si dice orgoglioso della nomea di populista, «essendo il popolo la somma degli azionisti che sostengono questo governo». Ma l’anno seguente si definisce «progressista da sempre», di fronte a un pubblico della Festa dell’Unità che per carità del nascituro campo largo sceglie di dimenticare il passato recentissimo. Macron o Le Pen? «Guardi… Non sono un elettore francese». Trump o Biden? «Sa, io e il mio M5S non votiamo in America». Da capo del governo gialloverde è entusiasta dell’Autonomia, «che farà bene agli italiani». Appena alla guida di un partito ormai a spiccata tendenza meridionalista come il M5S diventa Masaniello e la definisce «un disegno scellerato». Al suo ultimo atto da presidente del Consiglio è ancora europeista e impegna l’Italia ad accettare le modifiche del Mes. Al suo primo atto da capo regolarmente eletto del M5S si fa euroscettico e dichiara che non lo voterà.
Se tutto è uguale. Se si sceglie sempre secondo il vantaggio personale del momento. Se si partecipa a una alleanza ostentando la propria indifferenza alle sue sorti anche dal palco, come a reclamare la propria distanza, oggi ci sono ma domani potrei anche essere altrove, finisce che si paga un prezzo. Tra le mille maschere della sua dotazione, quella del capo di governo che tiene insieme il Paese durante la prima epidemia mondiale dell’epoca moderna gli aveva consegnato una dote di serietà istituzionale che oggi sembra ormai spesa in modo definitivo, persa tra mille travestimenti.
A ogni sconfitta dice che ci mette la faccia, come da copione. Ma non prende il Maalox in pubblico, come faceva Beppe Grillo. Non chiede la conferma alla base come fece Di Maio dopo un’altra botta alle Europee. Sorride, e minimizza. Sulla Liguria, il commento è stato affidato a una nota stringata che non è finita neppure sui suoi social, quindi è come se non ci fosse, per mantenere immacolata la propria immagine. Il culto della propria personalità del quale si è fatto sacerdote sta cominciando a rivelare una stanchezza intrinseca. A casa propria, dove la Costituente da lui a lungo rimandata arriva forse troppo tardi per dare basi solide a un progetto al momento senza una direzione precisa. E tra i democratici, che lo vedono come un cespuglietto e non come «il punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti», se mai lo è stato.
Prima o poi, qualcuno nel Pd se la sentirà. La credibilità è andata persa tra mille giravolte, moderato e barricadero, di palazzo e di lotta, tutto e il suo contrario. Adesso è lui il problema. A forza di diventare sempre qualcun altro, come Zelig, la faccia di Giuseppe Conte sembra essere ormai logora. E la maschera a cui era più affezionato, quella da capo di governo, è stata ormai ritirata dal mercato della politica. Per carenza di domanda.