19 Settembre 2024

Il caso Palamara e il Csm come esempio di «fallimento dell’apprendimento istituzionale» nello studio di due sociologi delle organizzazioni, Maurizio Catino (Milano Bicocca) e Cristina Dallara (Bologna)

Luca Palamara un capro espiatorio? Sì, ma non nel senso dei mitomani che scorgono un nuovo Dreyfus nel pm romano ed ex membro Csm ed ex presidente Anm radiato dalla magistratura per avere discusso la nomina del nuovo capo della Procura di Roma con un parlamentare e un ex ministro indagato proprio dalla Procura di Roma, bensì come esempio di «fallimento dell’apprendimento istituzionale» di una organizzazione (in questo caso il Csm) a causa della tendenza ad «affrontare problemi di natura sistemica con soluzioni di tipo individuale». È la tesi di due sociologi delle organizzazioni, Maurizio Catino (Milano Bicocca) e Cristina Dallara (Bologna), in uno studio nel quale mettono a confronto l’organizzazione formale (quale risulta da norme, regolamenti, circolari) e il sistema concreto di azione, quale risulta da interviste a magistrati, membri Csm in carica o ex, professori di ordinamento giudiziario, e dalle esperienze stesse di Catino ai corsi della Scuola della Magistratura per la formazione degli aspiranti dirigenti.
Il caso Palamara, è la critica di Catino, è stato affrontato con una strategia di cambiamento e di apprendimento «basata sulla persona e accusatoria», che cioè «cerca di spostare la colpa di quanto accaduto su un individuo o un gruppo di individui, creando talvolta in questo modo un capro espiatorio organizzativo», che non è l’innocente che paga al posto di altri, ma un colpevole sul quale però vengono fatte ricadere le colpe anche di altri. Solo che per una organizzazione questo tipo di apprendimento basato sulla persona «genera un tipo di apprendimento “a circuito singolo”, che modifica le strategie d’azione ma lascia immodificati i valori di una teoria d’azione, apprendendo in modo non virtuoso dagli eventi e anzi con maggiore opportunismo adattivo».
L’occasione persa sarebbe dunque quella di gingillarsi con il sorteggio sì-sorteggio no per le elezioni Csm, anziché affrontare le vicende Palamara con una strategia di tipo «organizzativo e funzionale» che «generi un apprendimento a “circuito doppio”, volto cioè a cambiare, oltre che le strategie e gli assunti, anche i valori e le teorie-in-uso sottostanti». Attorno a «tre nodi sistemici molto rilevanti ma poco considerati». Il primo è la concreta difficoltà nel giudicare i curricula dei candidati, dovuta all’eccessiva quantità di dati e indicatori in realtà scarsi per qualità, con pareri provenienti dai Consigli giudiziari tutti sempre positivi e privi di sfumature che permettano reali valutazioni, sicché Catino si sente confessare dai suoi intervistati che «a volte la strada più efficace sembra davvero quella di fare una telefonata ai colleghi dell’ufficio del candidato e chiedere pareri espliciti». Il secondo sarebbe la frizione tra due logiche contrastanti, quella della rappresentanza politica basata sul consenso (i membri del Csm sono eletti) e quella professionale della valutazione meritocratica basata su terzietà e imparzialità, che dovrebbe improntare la gestione delle carriere ma che sconta il fatto che al Csm «siano elette persone non formate nella gestione e valutazione del personale e nell’organizzazione delle risorse. Il terzo è l’ipocrisia che per Catino avvolge le relazioni di membri Csm con soggetti esterni alla magistratura e anche appartenenti alla sfera politica, al punto che nel suo studio pubblicato dal Mulino arriva a suggerire che «questo tipo di relazioni, tutt’oggi spesso negate dal dibattito interno alla magistratura, debbano essere portate nell’alveo istituzionale e della trasparenza pubblica per evitare che pochi soggetti o gruppi organizzati li gestiscano in modo informale e non trasparente».
Gli si può obiettare che lo studio sconti a sua volta la caratterizzazione politica di alcuni degli intervistati intuibili in appendice dietro l’elencazione dei loro passati ruoli. Ma di certo ha il pregio di mettere empiricamente in evidenza che, «quando la “governance” formale in un’organizzazione non funziona, tende ad emergerne una di tipo extra-legale con una maggiore efficacia operativa ma minore legittimità formale». E che liquidare tutto come degenerazioni singole (il capro espiatorio organizzativo, come lo chiama Catino) rischia di «perpetuare soltanto un modo per continuare a mantenere la governance extra-legale con altri attori».

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