Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
Forse la tempesta giudiziaria sulla giunta Raggi farà capire a tutti il prezzo che si paga quando si rinuncia ad attribuire importanza al garantismo
Quando sulla graticola (avvisi di garanzia, arresti eccetera) ci finiscono gli antigarantisti, coloro che hanno costruito le proprie fortune e calamitato consensi dedicandosi al sistematico linciaggio morale degli avversari, lucrando sulle disgrazie giudiziarie altrui, si possono adottare l’uno o l’altro di due atteggiamenti. Si può scegliere di battere le mani e limitarsi a dire «Ben vi sta. Chi di spada ferisce, eccetera eccetera». E passare ad altro. Oppure si può cercare di sfruttare la «finestra di opportunità», ci si può sforzare di parlare a quelli — ora certamente disorientati — che hanno seguito i linciatori morali come se fossero il pifferaio di Hamelin. Allo scopo di far capire loro quanto sbagliato — anzi, barbaro — fosse l’atteggiamento di chi condannava le persone prima che ci fosse una sentenza di tribunale, di chi trattava da accertato «criminale» chiunque fosse soggetto a un qualche procedimento da parte di una procura. Forse la tempesta giudiziaria che si è abbattuta a Roma sulla giunta Raggi farà capire a qualcuno che non lo aveva capito quale sia il prezzo che una collettività paga quando rinuncia ad attribuire valore a certi principi liberali. Complice anche il fatto che qui da noi esiste l’unità delle carriere (fra giudici e procuratori), molti fanno, da sempre, confusione fra l’azione di una procura e la sentenza di un tribunale. Per giunta, soprattutto dai tempi dell’inchiesta giudiziaria dei primi anni Novanta denominata «Mani Pulite», la presunzione di non colpevolezza, prevista dalla nostra Costituzione, come da tutte le costituzioni liberali, venne cancellata dalla mente dei più. Il circo mediatico-giudiziario — non a freddo, ma assecondando i bassi istinti presenti in una parte del pubblico — trattò, da quel momento in poi, ogni avviso di garanzia o ogni arresto decisi da una procura come se fossero sentenze e ogni persona oggetto di indagine giudiziaria come un colpevole. Bisogna dire che certi procuratori (non tutti) assecondavano questo andazzo. Lo facevano quando anziché presentare al pubblico le proprie tesi come ipotesi di reato le proponevano come verità accertate assecondando così i bassi istinti di cui sopra.
Il problema è che la presunzione di non colpevolezza è un fondamento dello Stato liberale e quando viene travolto nella consapevolezza dei più, ciò che si verifica è una regressione collettiva, un ritorno alla barbarie: proprio ciò che le Costituzioni liberali si sforzano di impedire (a che altro mai dovrebbe servire una Costituzione?). È anche tenendo conto di questo che chi scrive non ha mai apprezzato l’uso troppo disinvolto che in Italia si fa delle parole «fascismo» e «fascista». È ovvio che nell’uso generale, tranne che nei casi in cui ci si riferisca ai gruppi di nostalgici (con saluti romani e il resto del repertorio), non ci sono legami con il fascismo storico. È ovvio che la parola, in Italia, è una specie di sinonimo di «brutto, sporco e cattivo». Il problema è che fra i «fascisti» (i brutti, sporchi e cattivi) ci sono sempre stati, a parere di chi scrive, anche diversi fra coloro che si autodefiniscono antifascisti. Il loro atteggiamento verso la questione della presunzione di non colpevolezza (quando di mezzo c’erano o ci sono i loro avversari politici) è sempre stata una decisiva cartina di tornasole.
Non bisogna essere ingenui, non è che nel momento in cui sulla graticola ci finiscono gli antigarantisti, allora chissà quanti fra quelli che li avevano applauditi cambieranno idea, cadranno folgorati sulla via di Damasco, scopriranno di colpo le virtù di cui grondano le guarentigie liberali. Bisogna davvero farsi troppe illusioni sulla natura umana per crederlo. Lasciamo da parte quelli che sulla negazione del principio di non colpevolezza ci campano e ci lucrano. Quelli hanno un tornaconto personale. Non c’è da convincerli di nulla, bisogna soltanto cercare di isolarli, di fare loro il vuoto intorno. Ma anche fra quelli che li hanno seguiti in buona fede ce ne sono alcuni che non possono essere comunque ricondotti sulla strada della civiltà, che non sono interessati ad apprezzare e a praticare comportamenti più civili. Sono quelli il cui unico interesse è colpire colui che ritengono il proprio nemico politico del momento. A prescindere. Per loro, gli strumenti giudiziari sono soltanto un mezzo, insieme a tanti altri (ma forse più efficace di altri) per abbattere il suddetto nemico. La celebre battuta di Giovanni Giolitti secondo cui «in Italia le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici» non si adatta solo alle deprecabili abitudini di certe frazioni delle élite (politiche, culturali, amministrative, eccetera). Si adatta anche al modo in cui la legge è intesa da una parte del pubblico. «A noi le garanzie liberali, a voi il linciaggio morale»: non è difficile individuare quelli che, in queste faccende, sono scopertamente in malafede. Poi ci sono gli altri, quelli in buona fede. Alcuni, come ho detto, sono irrecuperabili. Altri no. Sono questi ultimi che ci si deve sforzare di persuadere. Basta anche riuscire a convincerne uno soltanto e la convivenza civile ne ricaverà un beneficio.