Invece di tagliare i fondi al Dipartimento di giustizia minorile non sarebbe meglio investire di più per offrire una possibilità di «recupero» a tanti giovani?
«Eparole indecenti sono anche prigione e prigioniero. Essi sono […] la piaga che puzza, i pidocchi che camminano sul corpo sociale. Chi avrebbe la virtù di parlarne? […]»: i recenti tagli in finanziaria per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria mi fanno pensare alla denuncia della drammatica condizione dei detenuti apparsa nel 1864 su un glorioso giornale calabrese, «il Bruzio». «Le prigioni di Cosenza – si legge nell’inchiesta – bastano appena a 500 prigionieri, e nondimeno al momento ne contengono 897. Manca a quegl’infelici l’aria da respirare, il luogo da muoversi, sono legati a mazzi come i dannati dell’inferno, gli uni agli altri sovrimposti come fasci di fieno».
Queste parole di Vincenzo Padula – prete e letterato di Acri, apprezzato da Francesco De Sanctis e Benedetto Croce, e rilanciato all’attenzione della critica negli anni Cinquanta da Carlo Muscetta – sembrano scritte oggi, ma risalgono a più di un secolo e mezzo fa. E la realtà diventa ancora più drammatica quando la scure dei «risparmi» cade sul Dipartimento di giustizia minorile.
Già in dicembre, la rocambolesca fuga di sette ragazzi detenuti nell’Istituto Cesare Beccaria di Milano aveva acceso i riflettori sui limiti di una struttura ritenuta «modello»: per l’associazione Antigone, infatti, questo carcere minorile presenta una serie di problemi (sovraffollamento, celle inadeguate, carenza di guardie e di educatori, riduzione delle attività formative) comuni a tanti altri istituti. Con buona pace dell’autore del famoso Dei delitti e delle pene, come si possono «rieducare» dei minori in un contesto così degradato e afflitto dalla piaga dei suicidi? Non sarebbe meglio investire più risorse per offrire una possibilità di «recupero» a tanti giovani? La devianza e la criminalità, si sa, sono figlie anche delle disuguaglianze e della marginalità sociale.