
Un punto di incontro è difficile ma necessario e possibile solo a condizione che si rispettino i ruoli istituzionali delle parti, evitando strumentalizzazioni volte unicamente ad ingenerare confusione
Non è certamente una buona notizia il naufragato recente incontro tra i rappresentanti della magistratura e il governo posto che le parti sono rimaste ferme sulle loro posizioni. L’auspicio, ma diciamo pure la speranza, è che quanto prima possano esservi altri confronti che abbiano la primaria finalità di rafforzare o quantomeno preservare i traguardi raggiunti dal nostro Paese in lunghi anni di impegno e battaglie sociali e giuridiche che hanno consentito di superare il retaggio culturale di una amministrazione autoritaria basata sul comando e sull’assoluta mancanza di partecipazione dei consociati ai processi della vita pubblica. E quindi giungere ad un patto per una gestione più condivisa degli interessi comuni attraverso il potenziamento degli istituti giuridici che consentono ai cittadini di avere sempre maggiore accesso alla «cosa» pubblica e alla sua gestione.
La sempre maggiore tendenza a sovrapporre questioni tecnico-giuridiche a quelle politiche, espone al rischio di escludere i cittadini dal dibattito pubblico e conseguentemente alle amministrazioni statali di utilizzare lo strumento più efficace che consente agli ordinamenti democratici di sviluppare processi decisionali utili a rispondere ai bisogni della collettività. La partecipazione, d’altronde, per essere propositiva deve puntare a risultati condivisi che possono essere raggiunti soltanto con un confronto aperto piuttosto che con la mera difesa di posizioni predefinite.
È evidente quindi che dibattiti come quello cui stiamo assistendo in merito al semplicisticamente declinato conflitto tra magistratura e politica non suscitano alcun interesse tra i cittadini e l’unico risultato che potrebbe conseguire è quello di minare ulteriormente il rapporto di fiducia tra gli stessi e le istituzioni. D’altra parte è piuttosto difficile per il cittadino comune comprendere problematiche che non sono chiare neanche agli esperti della materia. Nell’emblematico caso Almasri, ad esempio, vi sono opinioni contrastanti sull’operato del Ministro della giustizia che per alcuni non ha facoltà di sindacare il contenuto dei mandati di arresto della Corte penale internazionale, mentre per altri interpreti della legge di riferimento (l. 237 del 2012) è esattamente l’opposto. Ma lo stesso si potrebbe dire per la Corte d’appello di Roma criticata per aver applicato in modo restrittivo lo statuto della Corte dell’Aia e, al contempo, difesa da chi ritiene ineccepibile il provvedimento.
Così è avvenuto anche per il Procuratore della Repubblica di Roma che dopo aver ricevuto la denuncia di un ex onorevole ha ritenuto di non poter fare altro che iscrivere nel registro degli indagati il Presidente del Consiglio ed importanti esponenti del suo governo. Una modalità operativa contestata da autorevoli avvocati e giuristi. E cosa pensare, infine, dell’ancora più complesso dibattito scaturito da tali contrapposizioni e cioè se il comportamento assunto dal Governo in questo caso, possa essere considerato una prova chiara della volontà di ampliare la discrezionalità del Pubblico Ministero ridimensionando, al contempo, l’intervento del giudice. Una finalità quest’ultima ben diversa da quella pubblicamente dichiarata con la riforma della separazione delle carriere. Si potrebbe continuare con altri numerosi noti casi anche del passato, ma non giungeremmo a risultati utili.
Sia chiaro, non è un obiettivo facile e pur tuttavia è possibile a condizione che si rispettino i ruoli istituzionali delle parti, evitando strumentalizzazioni volte unicamente ad ingenerare confusione riconoscendo, senza ipocrisia, che un provvedimento dell’ Autorità giudiziaria ha un impatto sociale del quale bisogna tener conto. E, al contempo, accettare la possibilità che si possa ricorrere alla «ragion di Stato», sia pure nella rinnovata accezione ben diversa da quella machiavellica cinquecentesca, quando è necessaria per tutelare la integrità dello Stato e dei suoi cittadini.