Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Mieli
Conte, che ha meritato la sufficienza, non dovrebbe alimentare la leggenda per cui chi gli muove obiezioni lo fa per una congiura dell’establishment geloso della sua popolarità
Oggi, 18 maggio, è il giorno della ripartenza. Ed è quindi anche tempo di consuntivi. Non di bilanci a carattere scientifico pur se va annotato che non c’è virologo o epidemiologo che non dica essere rischiosa la liberalizzazione, a partire da stamattina, dei movimenti di (quasi) tutti i nostri connazionali. Come è difficile trovare nel resto d’Europa e neppure negli Stati Uniti scienziati che non siano più che cauti. A differenza di quel che è accaduto in Asia, i Paesi dell’emisfero occidentale sono sospinti verso la riapertura generalizzata da una pur comprensibile impazienza. Ma devono sopportare un malcelato dissenso del mondo scientifico. Speriamo bene.
Quel che invece possiamo consentirci di fare è il punto sull’attività di governo da fine febbraio ad oggi. Diciamo subito che il presidente del Consiglio merita la sufficienza. Accompagnata da un ulteriore incoraggiamento laddove si tenga conto della impreparazione sua e dei suoi ministri nell’affrontare un’emergenza del genere. C’è stata qualche incertezza iniziale e qualche reiterata incomprensione con gli enti locali (che hanno provocato le ultime più che giustificate rimostranze del governatore campano Vincenzo De Luca), ma poi il capo del governo ha preso in mano il volante con determinazione.
I suoi colleghi europei (con l’eccezione di Angela Merkel) si sono mossi assai peggio di lui e non hanno approfittato di quel che avrebbero potuto imparare dall’Italia infettata con una ventina di giorni d’anticipo su tutti gli altri Paesi. Ragion per cui non staremo qui a rinfacciargli quel fanciullesco vizietto di presentarsi in tv all’ora di cena per lasciarsi andare a considerazioni generiche su provvedimenti assai al di là da venire. Ha fatto danno solo una volta, all’inizio, quando le indiscrezioni sul suo discorso televisivo hanno provocato una concitata fuga notturna dal Nord che ha messo in allarme l’intero Meridione. Per fortuna i governatori del Sud hanno preso in mano la situazione e sono stati in grado di limitare i danni. Ora è probabile che Conte difficilmente rinunci al piacere di quelle apparizioni serali in tv. Poco male. Può anche risparmiarsi di farsi accompagnare (come ha fatto la penultima volta) da quattro ministri, uno per ogni componente della maggioranza. Non è detto tra l’altro che a tutti i partner di governo faccia piacere fargli compagnia in queste esibizioni.
In compenso Conte dovrebbe forse trattenersi dall’alimentare la leggenda per cui chi gli muove qualche obiezione (come il presidente designato di Confindustria Carlo Bonomi) lo fa perché è parte di una congiura dell’establishment geloso della sua popolarità. Un establishment che lo considererebbe un parvenu e sarebbe pronto a tutto pur di «riprendersi» il potere. I cospiratori verrebbero per giunta aizzati – ha aggiunto il Pd Andrea Orlando – da «editori, diciamo non puri» ai quali farebbe «gola» la massa di denaro messa «in circolo». Concetti e parole imbarazzanti. Tutti sanno come stanno realmente le cose: a parte l’opposizione (e ora neanche più quella), non c’è nessuno che auspichi la caduta a breve del governo. Nessun «agguato» a Conte, come paventava un appello di intellettuali pubblicato giorni fa sul «manifesto». Anzi, all’uomo di Palazzo Chigi viene riconosciuto il merito di saper tenere a briglia un Movimento Cinque Stelle che è ad ogni evidenza in preda a un marasma. E non c’è chi non apprezzi la capacità del presidente del Consiglio di ricondurne i parlamentari a posizioni ragionevoli. È stato così per ogni passaggio parlamentare, ultimo quello della regolarizzazione dei migranti, e sarà presumibilmente lo stesso quando, tra breve, si discuterà del Mes. Il Pd traccia il solco e Conte va a riprendere le pecorelle pentastellate per riportarle nel gregge. È riuscito a far inghiottire ai grillini l’uscita di prigione (causa Covid) di piccoli e grandi mafiosi, ad evitare un putiferio per le contestazioni di Nino Di Matteo al ministro Buonafede, a far ingoiare nomine Rai contro le quali fino a ieri avevano lanciato proclami infuocati. Il M5S ormai digerisce tutto; il baricentro governativo si è spostato visibilmente nell’area di Nicola Zingaretti e nessuno scalpita. Neanche Beppe Grillo che, silenzioso come non mai, ha evidentemente gradito questa transumanza delle sue truppe nei prati della periferia dem.
Sarebbe stato tutto molto diverso se l’alleanza tra Pd e Cinque Stelle avesse visto la luce all’indomani delle elezioni del 2018 come molti, a sinistra, auspicavano. All’epoca il partito di Di Maio avrebbe fatto la parte del leone e al Pd, umiliato dalle urne, sarebbe rimasta solo la soddisfazione d’aver impedito l’ingresso di Matteo Salvini al Viminale. All’epoca però, con ogni probabilità, la Lega sarebbe cresciuta più o meno nella stessa misura, mentre il Pd avrebbe dovuto farsi carico della baldanza grillina (dal reddito di cittadinanza alle intemperanze antieuropee) e ne sarebbe uscito in frantumi.
Dopo la crisi di agosto, invece, trangugiati il taglio dei parlamentari e l’addio alla prescrizione, il partito di Zingaretti ha preso saldamente in mano le leve del comando. Con maggior vigore da quando la formazione di Matteo Renzi ha smesso di civettare sotterraneamente con la Lega e ha trovato occasioni di accordo con il partito di provenienza. Da quel momento i Cinque Stelle, ritrovatisi sotto l’inesperta regia di Vito Crimi, sono stati praticamente obbligati, sempre, ad abbozzare facendosi ricondurre all’ovile lungo i sentieri tracciati da Conte, Dario Franceschini e Roberto Gualtieri. Senza neanche recalcitrare oltremisura.
Accadrà di nuovo, dicevamo, ora che verrà al pettine il nodo Mes. Al momento Conte è riuscito ad ottenere che il no di principio del M5S si sia trasformato nella stravagante condizione che sia per prima la Francia a rivolgersi al Fondo salva Stati. Ma anche questa stramberia dimostra come quei sentieri tracciati da Conte, Franceschini e Gualtieri siano incredibilmente tortuosi, richiedano per essere percorsi un’infinità di tempo. Alla fine l’accordo si trova sì, ma con patti dall’impianto voluminoso, buoni solo per spendere, spendere, spendere ancora le «cospicue» (l’aggettivo è usato da Conte quasi ossessivamente) somme a disposizione. C’è da augurarsi che i denari profusi in tale maniera giungano almeno in parte nelle tasche di chi ne ha bisogno e rimettano davvero in moto l’economia. O quantomeno producano risultati non dissimili da quelli ottenuti negli altri Paesi d’Europa. Dovessimo restare i soli (in eventuale compagnia degli Stati europei della fascia mediterranea) a dover chiedere altri soldi in prestito o a fondo perduto, temo che non basteranno più i giochi di prestigio di Giuseppe Conte ad evitare quello «tsunami di collera» che secondo il politologo Piero Ignazi rischia di travolgerci tutti.