22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

economia

di Franco Venturini

Il fragile ottimismo, autorizzato da quanto sta maturando a Berlino e a Parigi, non deve farci perdere di vista la prova suprema che attende tutto l’Occidente, e il ruolo che potrà svolgere l’Italia

Tutti sanno che tra pochi giorni in Italia si voterà per il referendum costituzionale, ma quanti ricordano che il 4 dicembre segnerà anche l’avvio di una stagione elettorale europea capace di sancire la morte dell’Unione e di proiettarci nel mondo inesplorato di quella stanchezza sistemica che ha già eletto Trump e fatto vincere la Brexit?

Il bivio epocale che abbiamo di fronte (e che non si esaurisce nel nostro referendum) è stato evocato dalle parti in lotta soltanto a scopi propagandistici, qualcuno si è impadronito della vittoria di The Donald e altri hanno provato a coprirsi le spalle criticando con parole forti l’operato di Bruxelles. Ma in questo festival del provincialismo italico sono mancate quasi sempre, e da parte di tutti, la consapevolezza della partita che ci attende, la conoscenza delle sue implicazioni, la previsione dei pericoli ai quali andiamo incontro. Eppure si tratta di salvaguardare e dunque di riformare le nostre democrazie liberali, di decidere se la globalizzazione è da buttare o da governare, di creare le condizioni per una riscossa del ceto medio che ovunque guida la contestazione, di capire se andiamo incontro a derive autoritarie e di quale tipo. Dopo l’elezione di Trump la questione di sapere cosa diventeremo riguarda tutto l’Occidente, non più soltanto l’Europa. Ma la prima, la più elementare consapevolezza dei tempi che viviamo, la possiamo e la dobbiamo trovare vicino a casa nostra.

Guardiamoci intorno. Contemporaneamente al referendum italiano, in Austria si voterà il 4 dicembre per la ripetizione del ballottaggio presidenziale. Favorito Norbert Hofer, il candidato dell’estrema destra austriaca che in caso di vittoria ha promesso (ma gli serve un premier amico, che oggi non c’è) un referendum sull’appartenenza all’Unione. In marzo sarà la volta dell’Olanda. Favorito il leader anti-Ue e anti-immigrati Geert Wilders, attualmente sotto processo per incitazione all’odio. In maggio voteranno i francesi per eleggere il nuovo Presidente, e sulla carta la favorita è Marine Le Pen, che non ha bisogno di presentazioni. In settembre si voterà in Germania, e Angela Merkel dovrebbe essere confermata Cancelliere.

Una lettura analitica di questo calendario risulta, da qualche giorno, meno allarmante. Malgrado le forti tensioni che in Germania attraversano la società e il mondo politico, sarebbe una grandissima sorpresa se dalle urne non arrivasse un nuovo mandato di governo per Angela Merkel. Spesso troppo attendista, poco flessibile sulle regole della sana finanza, ma con idee chiare sui nostri valori comuni e sulle residue potenzialità dell’Europa. E poi, in Francia la destra moderata ha deciso che il suo candidato all’Eliseo sarà François Fillon. La vera posta delle primarie transalpine era di verificare la forza di Sarkozy, sul quale non sarebbero mai confluiti i voti socialisti. Con lui candidato al ballottaggio, Marine Le Pen avrebbe avuto serie possibilità di vittoria. Con Fillon, e sarebbe stato lo stesso con Juppé, un clamoroso successo del Front National è assai meno probabile. E se reggeranno Berlino e Parigi, reggerà l’Europa. Reggerà per cambiare, per portare a bordo i suoi popoli, perché altrimenti si suiciderà definitivamente. Ma sarà stato guadagnato del tempo prezioso per capire bene dove vuole andare l’America di Trump, per far avanzare integrazioni necessarie come quella della difesa, per attenuare nei limiti del possibile i traumi sociali che vengono attribuiti soltanto alla globalizzazione anche se le loro cause sono più numerose e complesse.

Si può ancora sperare, dunque. Questo fragile ottimismo, autorizzato da quanto sta maturando a Berlino e a Parigi, non deve però farci perdere di vista la prova suprema che attende tutto l’Occidente, e il ruolo che potrà svolgere l’Italia. Washington e le capitali europee, chiunque stia a Palazzo Chigi, continueranno a chiederci quel che ci hanno sempre chiesto: stabilità, conti in ordine e riforme strutturali. Ma l’anno elettorale europeo e i suoi rischi dovrebbero suggerire una valutazione più radicale (e realistica) dei nostri interessi nazionali. Se l’Unione europea sarà travolta dai responsi delle urne, l’Italia ne soffrirà inevitabilmente le conseguenze in termini economici, finanziari e politici. Ma se invece prevarrà l’ipotesi migliore, l’Unione non potrà rimanere quella di prima. Per continuare a vivere dovrà rinnovarsi, integrarsi maggiormente e di conseguenza rimpicciolirsi con l’adozione tardiva di un sistema di «cerchi concentrici». Nulla assicura, in questo caso, che l’Italia possa far parte di un gruppo ristretto centrale che non si identificherebbe più, come di fatto avviene oggi, con l’Eurogruppo. L’Italia del debito pubblico, della crescita anemica, della scarsa competitività, del crimine organizzato e soprattutto della instabilità politica, rischia di non risultare più indispensabile al motore europeo.

Su questa insidia dovremmo sin d’ora allungare lo sguardo. Nella consapevolezza che la nostra futura stabilità interna dipenderà dalle scelte delle istituzioni e delle forze politiche dopo il referendum, non dalla semplice vittoria dell’uno o dell’altro schieramento essendo entrambi suscettibili di innescare processi destabilizzanti. Guardare oltre le urne nostre e altrui per gestirne le conseguenze, questo è l’arduo esame che l’Italia non sembra voler affrontare. Ma così si marcia verso la bocciatura.

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