Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
Il nostro è uno dei pochi Paesi in cui non esiste un’associazione vasta e influente, professionalmente competente e capace di muoversi nel dibattito pubblico
«Quando gli insegnanti scenderanno in campo per esigere che i concorsi cessino dall’essere fatti per burla, e che il metodo dei concorsi per la scelta degli insegnanti governativi sia mantenuto rigidamente?». Questa domanda posta quasi settant’anni fa sulle colonne del Mondo da Gaetano Salvemini aspetta una risposta ancora oggi, di fronte all’ennesimo concorso burla previsto per l’immissione in ruolo di migliaia di «precari», e di fronte al silenzio in proposito da parte di coloro che invece nella scuola insegnano già da tempo. I quali, come auspicava Salvemini, dovrebbero essere i primi, invece, a sentire il dovere e l’interesse a difendere il significato e la qualità (e quindi il prestigio) del proprio lavoro.
Si tratta di un silenzio ormai cronico. Una delle caratteristiche più singolari del panorama scolastico italiano, infatti, è l’assenza da sempre della voce degli insegnanti. Lo si vede sempre in questi giorni quando tutti parlano di valore strategico della scuola, d’ importanza della «formazione», di centralità dell’istruzione e della ricerca, quando tutti ne scrivono illustrando analisi e proposte, ma non si sente mai la voce di chi nella scuola lavora tutti i santi giorni, ne conosce i molti problemi e le non minori miserie. I problemi e le miserie che costituiscono la realtà vera della scuola, l’esito di mali antiche ma più spesso di riforme sbagliate, di direttive cervellotiche, di indicazioni programmatiche campate per aria. Eppure solo la voce degli insegnanti, la loro esperienza diretta sul campo, potrebbe dirci, ad esempio, se davvero l’autonomia degli istituti scolastici ha funzionato, se davvero la presenza delle famiglie giova al loro lavoro, se realmente la didattica delle competenze è da preferire alla didattica delle conoscenze. Solo loro insomma potrebbero parlarci di quella cosa che nelle discussioni italiane viene sempre per ultima: della realtà. Di quell’insignificante particolare rappresentato da come stanno effettivamente le cose al di là dei nostri desideri e delle nostre teorie.
Ma gli insegnanti italiani non possono parlare. Il nostro infatti è uno dei pochi Paesi in cui non esiste un’associazione degli insegnanti vasta e influente, professionalmente competente e capace di muoversi nel dibattito pubblico, come esiste ad esempio in Francia, Inghilterra o Germania. Perché da noi al posto di un’associazione del genere c’è il «sindacato scuola». Non importa di che sigla si tratti — Cgil, Cis, Uil o Snals — , quello che importa è che in esso confluiscono sempre, indifferentemente, tutti i cosiddetti «lavoratori della scuola» (nel caso della Cgil i lavoratori «della conoscenza»). Si ritrovano cioè tutti nel medesimo calderone sia coloro che impartiscono ogni tipo e grado d’istruzione (dalla scuola dell’infanzia ai Conservatori musicali ) sia il personale ausiliario e tecnico del più vario genere ( uscieri, custodi, addetti di segreteria, ecc.). E naturalmente la grande massa dei «precari».
La conseguenza ovvia di questa ammucchiata è innanzi tutto che una massa così indifferenziata di iscritti non può essere tenuta insieme sul piano rivendicativo che da due obiettivi solamente: da richieste di natura esclusivamente retributiva o legata agli orari di lavoro, e dalla rivendicazione di spazi di cogestione all’interno dell’istituzione. Quanto alle prime, è tuttavia ovvio che possono essere avanzate, come difatti accade, solo richieste retributive legate in sostanza all’anzianità. Che deve essere escluso cioè qualsiasi collegamento di almeno una parte della retribuzione al merito individuale, e quindi qualsiasi valutazione circa la maggiore o minore capacità del singolo insegnate di fare il proprio lavoro. Tutto insomma dovrà essere automatico, omogeneizzato e appiattito perché altrimenti ne andrebbe di mezzo la compattezza del fronte degli associati.
Ma in realtà c’è una terza rivendicazione, forse quella più importante, che vede il sindacato scuola italiano di qualsiasi orientamento sempre in primissima linea, fino ad apparire quasi la sua principale ragion d’essere: l’immissione in ruolo dei precari. Non già però per reclamare, come sarebbe sacrosanto, concorsi veri (cioè seri: scritti e orarli come dio comanda) a scadenza fissa e aperti a tutti. No, al loro posto, invece, per chiedere solo e sempre l’ope legis, il «todos caballeros» comunque mascherato e ribattezzato. Il sindacato scuola italiano è così di fatto il sindacato dei precari e virtualmente tra i maggiori responsabili della dequalificazione della figura dell’insegnante, oltre che della sua assenza dal discorso pubblico. Non solo, ma esso è pure se non l’autore almeno il complice dell’incredibile malgoverno scolastico italiano gestito dal Ministero, che implacabilmente produce precari e periodicamente li immette in ruolo a condizioni di favore.
Alla fine però l’aspetto più negativo di un tale sindacato è proprio il suo mutismo culturale, frutto di un rapporto con la scuola esclusivamente di tipo funzional- corporativo. Per averne un indizio che però è più che un indizio basta scorrere il profilo biografico del segretario del sindacato Cgil dei «lavoratori della conoscenza»: un tizio che palesemente in vita sua non si è seduto dietro una cattedra neppure per un’ora. Come meravigliarsi che un sindacato simile non si curi minimamente di avere qualcosa da dire nel merito di ciò che la scuola è o dovrebbe essere, di alimentare alcun dibattito né su ciò che s’insegna né sul profilo di chi è chiamato a farlo, sul ruolo e il posto dell’istruzione nel presente e nel futuro del Paese? Esso tiene prigionieri gli insegnanti italiani nella gabbia del suo discorso senza verità e senza vita, fatto solo di vuotaggini pappagallesche, da anni sempre le stesse, sulla «democrazia», l’«autonomia», l’«inclusività» e così via salmodiando da un ope legis all’altra.