La vicenda dello scippatore indiano che ha rischiato il linciaggio e quella della sua anziana vittima ci rammentano ciò che avevamo deciso di dimenticare, causa emergenze maggiori come Covid e guerra: l’esercito dei clandestini e la sicurezza a rischio nelle periferie
La sicurezza è pacificamente un bene di rilievo costituzionale. Richiamata a vario titolo nella Carta una decina di volte, appare come una sorta di precondizione per il godimento di un’ampia gamma di diritti e libertà: così preziosa da limitare in alcuni casi altri diritti e altre libertà. Dunque, la storia etichettata di recente sui media come «il linciaggio del Quarticciolo» va molto oltre i confini della cronaca nera, narrandoci, a ben guardarla, il groviglio di storture e contraddizioni quotidiane che soffoca un po’ tutti noi e in misura assai più pesante gli abitanti delle zone metropolitane meno agiate, con un denominatore comune: la denegata sicurezza. A ragione, la neo istituita Commissione parlamentare d’inchiesta sulle Periferie ha deciso di dedicare uno dei suoi primi sopralluoghi alla travagliata borgata romana.
Il pestaggio con il quale un manipolo di picchiatori autoctoni ha inteso punire un immigrato indiano che aveva tentato di scippare una novantenne è un’infamia in sé, naturalmente. Accredita tra i cittadini un’idea criminale di sicurezza casereccia in contrasto con i principi basilari della statualità (tra i quali, appunto, il monopolio della forza sul territorio) e dunque è da reprimere con rigore. Ma ha anche il torto collaterale di avere confuso i termini della vicenda. I sette giustizieri, in parte gravati a loro volta da pendenze con la giustizia, e la loro balorda azione, subito «virale» in Rete, hanno relegato sullo sfondo i due veri protagonisti.
I quali, invece, ci raccontano con tutt’altra urgenza l’incrocio di due mondi che ancora non riusciamo a gestire: l’anziana donna che, sbattuta a terra, ha rischiato la vita e forse è comunque un po’ morta dentro da quel giorno; e il suo aggressore, un consumatore abituale di crack (lo scippo, ha detto, gli serviva a pagarsi la dose), irregolare, senza dimora, senza età certa (forse 26 anni, forse 35…) e addirittura senza identità plausibile, avendo dato alla polizia il nome di un campione di cricket del suo Paese, Arshdeep Singh. Il giovanotto, che ha miracolosamente riportato solo lesioni lievi nella bolgia, è stato condotto dopo le cure dal magistrato. Il quale, convalidatone l’arresto per rapina aggravata, l’ha subito lasciato andare infliggendogli nientemeno (!) che un divieto di dimora a Roma. Singh, continuiamo a chiamarlo così, è dunque svanito nel nulla. Il 2 novembre dovrebbe essere processato a piede libero, la sua contumacia appare probabile, la reiterazione di micro-reati che possono sfociare in drammi non sembra certo da escludere.
La sua storia e quella della sua anziana vittima ci rammentano ciò che avevamo deciso di dimenticare, causa emergenze maggiori come Covid e guerra: l’esercito degli «invisibili» e la sicurezza nei nostri ghetti urbani. Un anno fa l’Ismu stimava in poco più di mezzo milione gli irregolari in Italia, circa l’8,4% della presenza complessiva di stranieri. Tracimati dai circuiti di una sgangherata accoglienza verso una devastante clandestinità, costoro sono quei fantasmi che intravediamo sotto i cavalcavia, sul greto dei fiumi, nei sottopassi e negli interstizi di una dimensione comunitaria slabbrata e disattenta: abitanti naturali dei «non luoghi» di Marc Augé, nascosti come polvere sotto il tappeto delle periferie. Ci accorgiamo davvero di loro solo in un caso: quando delinquono. E infatti gli invisibili si trovano nella prassi quotidiana spinti al microcrimine e alla schiavitù, privi come sono di un’identità che dia diritto a un lavoro regolare, alla sanità pubblica, a un alloggio. Un altro mezzo milione di persone, per lo più italiani, vive accanto a loro, in contesti di degrado assoluto, fra criminalità locale e importata. Il tema incrocia questione quindi migratoria e questione urbana, due dossier incancreniti e dolenti. Col flusso di immigrati nuovamente fuori controllo e coi danari per le periferie che, alla fine, sono sempre dirottati su qualcos’altro. In questo conglomerato di guai, è evidente che occorre un intervento sui luoghi. La Commissione periferie della XVII legislatura aveva messo nel mirino le parti incompiute delle grandi città come alveo di conflitti stridenti: urbanizzazioni prive di servizi, aree naturali intercluse e diventate rifugio di tossicodipendenti e spacciatori, complessi industriali decrepiti abitati da senzatetto e profughi, campi nomadi dentro discariche abusive. Occorrono un censimento, una nuova legge urbanistica e soprattutto una potente volontà attuativa di azioni strutturali e di lunga durata.
Ma nel frattempo appare impellente porre mano al giorno per giorno, alle persone e ai reati. Che Singh possa continuare a vagare per le nostre strade a caccia di una dose di droga e di una vittima per procurarsela non è un caso limite, è la normalità di un sistema che non funziona. Il panpenalismo è certo una soluzione semplicistica a problemi che investono la capacità di reinserimento del reo, l’integrazione e vari sacrosanti percorsi riparativi. L’estensione del periodo di permanenza nei Centri per il rimpatrio (fino a 18 mesi con le nuove norme) può apparire vessatoria e al limite della costituzionalità. Ma la sicurezza ha cambiato la sua cifra di urgenza al cambiare della nostra società, all’irrompere di contraddizioni inimmaginabili per i padri costituenti. E la sinistra, che avrebbe per ragione sociale la difesa dei deboli, dovrebbe essere in grado, senza cedere a derive forcaiole, di identificare quei deboli. Magari premendo sulla maggioranza proprio per la loro tutela, magari entrando in talune periferie così poco frequentate per anni. Il soggetto più debole nella storia del Quarticciolo è senz’altro l’anziana signora scippata. Lo scippatore Singh è in parte una vittima, a sua volta. Ma mandarlo a spasso, lavandosene le mani, è peggio che un crimine, è un errore.