19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Bernard-Henri Lévy

La più grande sfida del neopresidente è far sì che la fine di un certo modo di considerare la politica non sia anche la fine della politica come tale. Per un uomo di Stato è fondamentale l’«arte dell’inizio»


No, gli elettori non sono «disgustosi», come ha dichiarato il patetico Henri Guaino. No, l’astensione (anche se da trent’anni e passa si insiste che favorisce sempre il Front National) non è stata la causa della vittoria di En Marche! E no, Emmanuel Macron non sta per intraprendere una carriera di dittatore a 39 anni, come non lo fece il generale de Gaulle a 67! In poche parole, quasi niente di quello che si sente ripetere sa spiegare lo tsunami elettorale al quale abbiamo assistito. Analisi e opinioni, che si susseguono a ciclo continuo da domenica scorsa nell’agorà digitale e catodica, si trasformano in un assordante rumore di sottofondo alle orecchie di quanti, da anni, non vogliono né vedere né ascoltare più nulla. E allora? Che cos’è realmente accaduto che possa spiegare come mai questo giovane leone, al quale erano state presagite infinite coabitazioni, sia riuscito nell’impresa, unica negli annali della Repubblica, di far entrare all’Assemblea più di 400 deputati schierati sotto i suoi colori? Innanzitutto, certo, c’è stato il «virtuosismo» di cui parlava Hannah Arendt nel suo commentario all’Etica nicomachea, che ricollega il «politico» all’«artista», in quanto via alternativa all’espressione della «virtù»; in secondo luogo, la mediocrità tipica di quei populisti (Le Pen, Mélenchon) che contestavano alla Repubblica in marcia lo spazio del «rinnovamento», e che si sono visti risucchiare nel sifone del loro stesso dégagisme, ovvero la nuova ideologia che invita a cacciare chi è al potere.
L’essenziale, tuttavia, sta nel ribaltamento profondo e, in realtà, strutturale che descrivevo dieci anni fa parlando di quel «grande moribondo», che abbiamo visto contorcersi nell’agonia finale. Tutto è iniziato con la rivoluzione francese e tutto è in gioco, più esattamente, con questa invenzione recente («Che cosa ne pensate, avrebbe chiesto Kissinger a Zhou Enlai, dell’impatto della rivoluzione francese?»… domanda alla quale, dopo un lungo silenzio, il cinese avrebbe risposto, «È ancora troppo presto per pronunciarsi»). Tutto è in gioco, pertanto, grazie a questa recente invenzione francese che è il concetto di «rivoluzione» posizionato, come una stella fissa, al vertice delle nostre rappresentazioni politiche, mentre il resto degli astri si allineano per rapporto ad essa: era «di sinistra» chiunque ritenesse di suo gradimento la prospettiva rivoluzionaria, mentre si spostava sul lato «destro» chi la vedeva invece come una minaccia e si sforzava di scongiurarla. Ebbene, abbiamo fatto una grande scoperta nel breve lasso di tempo che va, per l’esattezza, dalla rivoluzione cinese alla catastrofe cambogiana. E questa scoperta è stata la constatazione, mai prima di allora così palese, che più una rivoluzione è radicale, più è barbara e sanguinaria; che la rivoluzione non poteva più dirsi solamente «difficile», «utopica» o «impossibile», ma si rivelava profondamente odiosa; e man mano che la stella fissa si oscurava e si trasformava in un buco nero che ingoiava la sua stessa luce e quella degli astri meno luminosi che orbitavano attorno ad essa, tutto il sistema politico era condannato a implodere.
Siamo arrivati a questo punto. Non è la prima volta che la spaccatura «destra-sinistra» si è sfocata. Accadde anche — cito a caso — con Valmy, con il caso Dreyfus, con Vichy, con il colonialismo. Ma proprio su questa scena di quarant’anni fa è stato polverizzato, e pertanto neutralizzato, il suo nocciolo razionale e immaginario: siamo davanti a un contraccolpo amplificato, a una deflagrazione lenta e all’onda d’urto che l’accompagna, all’annullamento programmato delle spartizioni, delle liti e, infine, dei significati costitutivi dell’«eccezione francese», della quale il fenomeno Macron rappresenta oggi l’ultima incarnazione. Mille domande si pongono a cominciare da questo punto: come si comporteranno i nuovi rappresentanti della nazione, inebriati dal trionfo? Da dove, tramite chi e quando si smaltiranno gli effetti della sbornia? E come saranno inventati i nuovi contropoteri indispensabili per il buon funzionamento della democrazia? E inoltre: poiché la «regola» (anglosassone) non si è rivelata, nelle ultime vicende, molto meglio dell’«eccezione» (francese), dove stiamo andando? Con quale bussola, quale rosa dei venti, quale orizzonte? E basterà, per arrivarci, riconciliare La Fontaine con le start-up, Giove e Internet — la simultaneità, in altre parole, può trasformarsi in politica (durevole)?
E ancora: se si chiude effettivamente la successione di eventi che prese avvio nel 1789, ciò significa forse che siamo tornati al tempo dei Lumi? Al tempo della reinvenzione, precedente i Lumi, di un nuovo diritto naturale e del concetto di Repubblica che ne scaturisce? E riscriveremo Il leviatano oppure, tanto è lo stesso, i trattati di Vestfalia senza dover passare attraverso la tragica radicalizzazione delle guerre europee e mondiali in corso o in gestazione? Eppure il fatto inoppugnabile è proprio questo: Emmanuel Macron ha saputo vedere quello che i suoi precedessori avevano semplicemente intravisto. È stato, ed è, lo strumento o l’astuzia di questo avvenimento che si sta materializzando sotto i nostri occhi e che è destinato a durare a lungo. Ed è a lui, pertanto, che spetta il compito di ricostruire su questo ammasso di macerie; di impegnarsi affinché la fine di un certo modo di considerare la politica non significhi la fine della politica come tale; è a lui che spetta, assieme al popolo che l’ha eletto, e a quello che ha votato contro di lui o, peggio, si è astenuto, fare il meglio che possa fare un uomo di stato in tempi difficili: creare, pensare e inventarsi ex novo il regime storico in cui stiamo entrando — è l’arte dell’inizio, nella quale Hannah Arendt, ancora una volta, ravvisava l’obiettivo fondamentale dell’azione pubblica.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

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