Si può dire che la democrazia italiana abbia fin qui dimostrato la maturità sufficiente per cambiare governo senza cambiare natura
Se il governo Draghi non fosse stato buttato giù nove mesi fa da Salvini e Berlusconi, in singolare intesa con Conte, si sarebbe votato probabilmente a maggio, e starebbe ora per cominciare la campagna elettorale. Il momento è dunque adatto per un esercizio di quel gioco del «what if» che anche gli storici più seri ogni tanto si concedono: che sarebbe successo se il governo di unità nazionale avesse proseguito la sua corsa fino a oggi?
Naturalmente un gioco va preso per quello che è: si basa su opinioni personali, contestabili per definizione. Ma la prima cosa che forse si può riconoscere è che il passaggio dai «tecnici» ai «politici» non ha provocato quel collasso, quel disastro che molti prevedevano, e magari qualcuno in cuor suo auspicava. Il governo forse non galoppa, ma trotterella, e spesso nella direzione giusta. Rinunciando a un po’ di facile popolarità, e certamente smentendo numerose idee del tempo passato all’opposizione, la nuova premier ha infatti scelto di tenere l’Italia nei binari della sua storia e della sua collocazione internazionale. Lo si è visto in politica estera, con il confermato e pieno sostegno all’Ucraina; e lo si è visto in materia di disciplina di bilancio, dove la coppia Giorgia&Giorgetti ha fin qui imposto una linea saggia di responsabilità fiscale.
Si può insomma dire che la democrazia italiana abbia fin qui dimostrato la maturità sufficiente per cambiare governo senza cambiare natura. Nei sistemi politici più sperimentati il ciclo elettorale, pur con i suoi repentini cambi di maggioranza, di solito non intacca i fondamentali dell’interesse nazionale. Così è finora stato anche da noi, e deve sentirsene rassicurato anche chi legittimamente contesta l’origine di estrema destra della forza politica che ha raccolto più voti.
A conferma di una certa continuità ci sono anche le tracce, almeno per l’anno in corso, di un proseguimento del trend di crescita economica che ha caratterizzato i due anni precedenti. Va però aggiunto che il punto in più di Pil per il 2023 sembra più che altro la coda di quella cavalcata che ci ha portato più di 10 punti di incremento nel 2021 e 2022. Mentre le previsioni rallentano nettamente per i prossimi anni. Il che apre un grande interrogativo. È infatti chiaro che proprio i vincoli di bilancio riducono i margini di spesa pubblica di cui hanno goduto i governi precedenti, e lasciano come unico stimolo possibile alla crescita gli investimenti del Pnrr. E qui le cose non sembrano ancora andare per il verso giusto.
Avrebbe fatto meglio, a questo punto, il governo Draghi? Di sicuro finché è stato in carica ha centrato tutti gli obiettivi, e ottenuto puntualmente le tranche di finanziamento. Ma è anche vero che la sua missione era quella di varare riforme, provvedimenti legislativi indispensabili ma comunque pur sempre prerequisiti. Quando sarebbe arrivato il momento dei bandi e della «messa a terra», anche il governo Draghi avrebbe certamente dovuto fare i conti con la realtà di un Paese non più capace di spendere bene e presto così tanti soldi.
Però, se Draghi fosse rimasto, di certo non avrebbe cambiato la governance del Pnrr, che era stata costruita intorno al ministero dell’Economia, l’unico dotato di una struttura in grado di gestire una spesa così enorme e complessa. Il nuovo governo ha annunciato invece un’altra governance, ma per farla funzionare appieno si sta ancora dotando della struttura necessaria. Un rallentamento era inevitabile.
Inoltre: se come dice o fa capire l’attuale governo, così ansioso di mettere le mani avanti da apparire un po’ troppo insicuro sulle sue possibilità di riuscita, nel vecchio Pnrr ci fossero stati problemi davvero così giganteschi, come mai ci sono voluti cinque mesi e mezzo non dico per risolverli, ma perfino per individuarli? Sarà stata una buona idea non affidare a un ministro ad hoc la grande sfida della digitalizzazione, che pure rappresenta il 27% dei fondi del Pnrr? Con tutto il rispetto per il sottosegretario Alessio Butti che ne ha la delega, la differenza di competenze con il precedente ministro, Vittorio Colao, è incommensurabile.
C’è poi un evidente problema di agilità e credibilità diplomatica, che ora dobbiamo evitare ci procuri danni quando in Europa si decideranno le regole del nuovo patto di Stabilità. Come è noto la Commissione, in cui l’italiano Gentiloni ha svolto un ruolo per noi cruciale ma destinato a ridursi nel prossimo anno elettorale, ha proposto un sistema flessibile di accordi «personalizzati» con i singoli Paesi alle prese con deficit e debito alti. La Germania si è opposta e vuole una regola unica per tutti: un punto in meno all’anno di debito sul Pil. Comunque finisca, è difficile non pensare al tour de force diplomatico che avrebbe impegnato Draghi per convincere, lentamente e uno alla volta come fece per l’Ucraina, i singoli Paesi membri ad accettare una soluzione non punitiva per l’Italia. Già alla fine del 2021 aveva firmato un documento comune con Macron, con lo scopo di far pressione sul governo di Berlino, incuneandosi nell’alleanza tra francesi e tedeschi, e lavorando a preparare con la Germania l’equivalente del Trattato del Quirinale con la Francia. Ora la linea del governo sembra invece sperare piuttosto nella disarticolazione dell’asse franco-tedesco, per guadagnare spazi di manovra: non so quanto sia realistica.
Poi ci sono gli effetti collaterali politici. In negativo, la ripresa di una forte conflittualità politica e il ritorno del richiamo ideologico: annebbia la vista quando si tratta di affrontare problemi giganteschi ed epocali, né di destra né di sinistra, come i flussi migratori. Oppure, per esempio, lo spappolamento del Terzo polo: Calenda e Renzi avevano sperato di intestarsi l’eredità del governo Draghi, ma l’ex premier si sottrasse sia in carne e ossa, sia sotto forma di «agenda». Stabilire però se quest’ultima sia una conseguenza negativa o positiva per l’Italia, sarebbe davvero troppo opinabile.