19 Settembre 2024

SOCIETA’

Fonte: Corriere della Sera

di Barbara Stefanelli

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Aspettando l’8 marzo, abbiamo chiesto alle lettrici e ai lettori di condividere i nomi e le facce delle donne importanti nella vita di ciascuno: nella scia di un hashtag, #ringraziounadonna , sono arrivati centinaia di omaggi digitali a madri e nonne, maestre delle elementari, amiche geniali, scienziate come Rita Levi Montalcini e scrittrici come Virginia Woolf,

partigiane della libertà come le italiane della Seconda guerra mondiale o la pachistana Malala, ragazze coraggiose come Franca Viola che nel 1965 rifiutò le nozze riparatrici e denunciò il suo ex fidanzato-stupratore.
Rovesciamo la prospettiva: a chi pensiamo se proviamo a dire #ringraziounuomo ?
Il Novecento ha squassato quel modello di relazioni discese dai patriarchi che per secoli aveva inchiodato un equilibrio asimmetrico tra i sessi, tra di noi; stiamo ancora affrontando insieme i cambiamenti – personali, sociali, simbolici – che questa rivoluzione ha portato con sé. Il viaggio è appena cominciato: se guardiamo indietro, alle madri o alle nonne che ci hanno accompagnato fin qui, vediamo quanto il salto possa tuttora dare le vertigini. Forse la verità è che, tre generazioni dopo, gli esiti di quel balzo esistenziale non sono scontati. Per questo è importante, nel 2015, ringraziare anche gli uomini. Sì, ma quali?

 

Innanzitutto, i padri. Quei padri che non fanno differenze quando pensano al futuro dei figli e delle figlie: che investono sulle bambine, restando in ascolto della loro voce, senza farsi distrarre da quanto pensano di sapere già su che cosa sia « adeg uato». I l rapporto padre-figlia è stato, e resta, un motore di innovazione straordinario nel campo dell’educazione. Noi sappiamo che il divario in termini di istruzione tra maschi e femmine si è oggi chiuso in Italia. Sappiamo anche quanto una mancanza di fiducia in sé finisca ancora per far arretrare i risultati delle adolescenti in matematica, scienze, informatica. L’ultimo rapporto Ocse-Pisa (testo di riferimento sulle conoscenze scolastiche) parla di un’ansia crescente delle teenager davanti ai numeri, davanti alla richiesta di «ragionare da scienziate» nella soluzione dei problemi. Solo quando gli studenti – in particolare le studentesse più brave e diligenti – pensano di potercela fare, di non avere handicap in partenza, si concedono la libertà di sperimentare: di tentare e magari fallire. Tra le ragazze e i ragazzi italiani ci sono 24 punti di distanza, che corrispondono a un ritardo nella preparazione di tre mesi, nelle prove di matematica. In Finlandia o in Corea del Sud non esiste divario: prova che il distacco non parte dal cervello. L’incoraggiamento dei genitori a non pensarsi destinate ad altro – altre materie, altre professioni – è la più potente leva per il cambiamento a disposizione di tutte le famiglie.

 

Poi, naturalmente, i compagni. I mariti, i fidanzati, i partner di un tratto lungo o breve di strada. Quei compagni che, anche quando il rapporto si stringe e complica, non negano alle donne la libertà che davano per acquisita, giusta, accettabile in tempi di pace. Spesso la crisi di una relazione vede gli uomini, compresi quelli delle generazioni più giovani e consapevoli dei cambiamenti avvenuti, rientrare in uno schema familista che consegnava – e consegna – ai maschi il controllo sugli spazi femminili. Da qui, davanti a una frattura o al rischio di abbandono, lo sconcerto. E la furia, che arriva fino alla violenza, per negare alle donne la possibilità di andare via, andare altrove, spostarsi fuori controllo. Sono «le mazzate», le catene private e pubbliche, da cui le due amiche protagoniste dei romanzi di Elena Ferrante cercano con fatica e dolore di allontanarsi, inerpicandosi dal rione d’origine verso nuove città ideali dove «le smarginature» possano essere ricomposte.

Infine, i capi. Ci sono moltissimi dirigenti uomini in Italia. Sono dappertutto, sono ai vertici delle imprese e delle istituzioni. Sono decisivi. Il nostro grazie va a quelli tra loro che non concedono lentamente pari opportunità, ma riconoscono sin dall’inizio pari capacità. Perché è giusto. E perché ha senso, per tutti. Uomini e donne. A quei capi che non temono il confronto e sanno aprire – senza pregiudizi o previsioni – non tanto a un genere diverso, quanto al merito di persone differenti. A quei capi che non considerano la maternità un limite professionale, un problema privato che si rivelerà un intralcio per l’organizzazione degli altri e per la produttività di fine anno. I figli, che in Italia sono pochissimi rispetto alla media nei Paesi europei, non sono un problema – né un monopolio – delle donne. Qualunque rinnovamento economico, dopo anni di sistema bloccato e di occupazione femminile ferma al 47%, passa dalla riscoperta del valore sociale della maternità (e, finalmente, della paternità). Come dalla condivisione dei tempi di cura delle persone – i bambini, gli anziani, i malati.

L’8 marzo è una giornata che poche e pochi ormai celebrano, che viene sopportata, spesso avversata. Ma in tempi in cui parliamo inquieti di sottomissione – della nostra civiltà con le sue libertà giovani, delle donne rispetto agli uomini – questa festa può rappresentare un’occasione semplice per essere fiere di quello che siamo e per essere, insieme, più forti in un cammino incerto. Lo dobbiamo costruire, con coraggio, ancora: le donne pronte a rischiare per non fermarsi, perché le nostre conquiste non sono mai definitive; gli uomini pronti ad abbandonare il conforto di identità fuori tempo massimo.

 

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