19 Settembre 2024
Meloni4

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A contatto con la dura e logorante realtà del governo di ogni giorno, Giorgia Meloni sta rischiando di smarrire il focus del suo messaggio principale

«Non ti disunire, Giorgia». Se potessimo dare un consiglio alla premier, che per definizione non ne ha bisogno, useremmo l’ormai celebre aforisma di «È stata la mano di Dio». Il sondaggio di Pagnoncelli pubblicato dal «Corriere» ha messo ufficialmente fine alla luna di miele del governo (una delle più lunghe che si ricordino, del resto); e il ritorno in negativo del Pil ha segnalato l’esaurirsi della spinta propulsiva del biennio Draghi, della sua eredità e dell’abbrivio con cui l’Italia era uscita dalla pandemia. Si spiegano certamente così i momenti di spazientito nervosismo della premier, sempre più frequenti nei suoi incontri con la stampa, e quel tanto di ricorso al complottismo che tenta di attribuire ogni difficoltà oggettiva all’azione soggettiva e subdola di qualche nemico: dai plutocrati delle banche che lucrano sui tassi di interesse, alla cattiveria degli algoritmi che fissano i prezzi dei biglietti aerei, fino a Paolo Gentiloni, il commissario italiano a Bruxelles accusato di non essere abbastanza «italiano» nel difendere le posizioni del governo di Roma, ovviamente identificate con gli interessi della Patria.
Insomma, un po’ si è disunita Giorgia Meloni in queste settimane che annunciano l’autunno. A contatto con la dura e logorante realtà del governo di ogni giorno, sta rischiando di smarrire il focus del suo messaggio principale, che l’aveva fatta levitare per quasi un anno in una bolla apparentemente invulnerabile. Autorevolezza e affidabilità erano state le parole chiave dopo la vittoria elettorale; e hanno funzionato, garantendo consenso interno e credito internazionale. Sia attraverso la prudenza nei conti pubblici e la collaborazione con Bruxelles, per ridurre al minimo il «rischio Italia» sui mercati, attrarre investimenti esteri e sostenere la crescita con quelli del Pnrr. Sia in politica internazionale con una posizione ferma sull’Ucraina, tuttora la migliore rendita di posizione del governo; perché, per quanti complottismi si possano concepire, sono davvero pochi quelli che nell’establishment europeo oggi tramerebbero contro l’esperimento Meloni, sapendo che se fallisse si ritroverebbero l’Italia in uno schieramento molto più sensibile a Mosca.
Da questo punto di vista l’accelerazione polemica contro la Commissione di Bruxelles ha davvero un sapore autolesionistico. A parte il fatto che Ursula von der Leyen ha bisogno dei voti del partito di Meloni nell’Europarlamento per un secondo mandato, e perciò l’ha finora trattata con i guanti bianchi: a parte il fatto che Roma ha ancora aperti due fronti delicati e sdrucciolevoli, e cioè adesione al Mes e riforma del Patto di Stabilità; in ogni caso dare oggi una plateale testata a Gentiloni rivela solo uno stato di tensione interna al sistema-paese che certo non ci giova, nemmeno se il commissario l’avesse davvero provocato come fece Materazzi con Zidane (alla fine quello espulso fu Zidane).
D’altra parte proprio il sondaggio di Pagnoncelli dovrebbe consigliare un diverso atteggiamento. Pur segnalando infatti una prima inversione di tendenza nel gradimento verso il governo, ne conferma però anche la stabilità, poiché l’opposizione è ben lungi dal poter rappresentare un’alternativa. La proposta di Elly Schlein sembra sempre più inoffensiva. Non solo per i contraccolpi interni al Pd che provoca, ma perché ne sta clamorosamente confermando l’assenza di qualsiasi forza coalizionale. È solo Conte che ha in mano il cerino di una possibile alleanza, e può accenderlo o spegnerlo dopo le europee. La Schlein, se sarà ancora lì, come l’intendenza dovrà seguire. Il Centro, poi, sembra sempre più un laboratorio di fisica da cui si sprigionano impazzite particelle sub-atomiche in fuga dal nucleo.
Dunque la leader di Fdi, ancora sopra il 30% nei sondaggi, non ha alcuna buona ragione di essere preoccupata dall’opposizione. Ma non ha perciò neanche alcun alibi dietro il quale nascondere il suo vero problema politico, che è invece interno alla maggioranza, al suo sistema di alleanze, al suo stesso mondo. E per inseguire il quale finisce per indebolire la sua qualità di governo.
All’agosto di un generale che scrive un libro politico, viene rimosso dal suo incarico e ciò nonostante va in giro a propagandare le sue tesi provocando un’ondata di simpatia anti-sistema e rispondendo persino al capo dello Stato (che per la Costituzione «ha il comando delle Forze Armate»), si è aggiunto adesso il settembre di un vice premier, Salvini, che invita sul palco di Pontida la leader anti-sistema della Francia: un po’ la riedizione di quando l’allora vicepremier Di Maio andò a stringere la mano ai «gilet gialli» in lotta contro il governo alleato di Parigi. Dando un passaporto padano alla francese, il capo della Lega compie un’operazione di vero e proprio sganciamento dalla linea del governo di cui fa parte (l’aveva già fatto con Vannacci contro il ministro della Difesa). Vale solo la pena di ricordare che l’altro vicepremier, Tajani, ha ribadito ieri «noi mai con la Le Pen». E che il capo dei Popolari a Bruxelles, Manfred Weber, ha detto al Corriere che l’altro alleato europeo di Salvini, la Afd tedesca, «va contro tutto quello in cui crede il mio partito».
È ormai chiara la strategia di Salvini per le prossime europee: insediarsi in tutto ciò che si agita a destra di Meloni, per riconquistare quella massa di voti «populisti» da anni in mobilità permanente tra Grillo, la Lega e Fratelli d’Italia. Ma quando nel prossimo Europarlamento i tre partiti che governano l’Italia indicheranno il nuovo commissario italiano a Bruxelles e poi gli voteranno alcuni a favore altri contro, Salvini diventerà per Meloni un problema un po’ più grosso di Gentiloni.

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