Fonte: Sole 24 Ore
di Marco Mobili e Gianni Trovati
Tra gli obiettivi principali la creazione di un ambiente più attrattivo per gli investimenti. Sentiero stretto per le coperture, tra la indicazione Ue di «tassare le cose» e la lotta all’evasione
Nell’impianto tratteggiato dal Presidente del Consiglio Mario Draghi al Senato e alla Camera, la riforma del fisco appare destinata ad affiancare quelle della pubblica amministrazione e della giustizia nei capitoli mancanti al Recovery Plan ereditato dal Conte II. Proprio l’impegno sulle riforme strutturali sarà una delle differenze più marcate del piano che ha intenzione di costruire il nuovo Governo rispetto al lavoro condotto fino a pochi giorni fa dal vecchio Esecutivo. Una mossa non banale, e impegnativa, sul doppio piano dei tempi e dei contenuti.
Il terreno fiscale mostra in modo efficace la complessità del problema. Sul punto Draghi ha spiegato a chiare lettere il metodo, fondato sull’affidamento del dossier alle massime competenze additando il modello danese del 2008 della «commissione di esperti». Ma è stato lo stesso Presidente del Consiglio a ricordare che quella commissione arrivò a costruire una riforma che tagliava per due punti di Pil le imposte sui redditi.
Difficile non vedere anche in questo obiettivo di merito un pilastro del lavoro che i futuri riformatori fiscali dovranno condurre. Magari con l’aiuto di istituzioni come la Banca d’Italia, l’Upb, l’agenzia delle Entrate o l’Istat, e di grandi nomi dell’accademia italiana come Massimo Bordignon, Nicola Rossi e Carlo Cottarelli. Un panorama, questo, già disegnato dalle audizioni condotte fin qui dalle commissioni Finanze di Camera e Senato sull’indagine conoscitiva sulla riforma Irpef. Commissioni che puntano a presentare al Governo una proposta definita e bipartisan entro marzo (si veda Il Sole 24Ore dell’11 febbraio).
Le loro analisi riassunte nei dossier depositate alle Camere aiutano a tracciare la rotta “obbligata” da seguire per rimettere mano al Fisco italiano (si veda Il Sole 24Ore di lunedì). Che, prima di tutto, anche alla luce degli infiniti ritocchi subiti in maniera scordinata negli anni ha finito per assestare i propri colpi più duri sul lavoro, dove l’Italia è superata solo da Slovacchia e Grecia nella graduatoria europea della pressione fiscale. Non solo: perché sui redditi da lavoro la curva della progressività si impenna tra 26mila e 40mila euro di reddito, scoraggiando la produzione (e la dichiarazione) di redditi aggiuntivi e l’occupazione, in particolare femminile e giovanile.
La finanza pubblica italiana schiacciata da vent’anni di stagnazione e dal debito gonfiato dalla pandemia non offre però soluzioni semplici. Per trovare risorse il Presidente del Consiglio ha indicato la strada di un impegno rinnovato e accresciuto nella lotta all’evasione. Ma è noto che le risorse eventuali prodotte dalle azioni di contrasto al sommerso possono essere utilizzate come copertura solo una volta incassate e rese strutturali, per esempio tramite l’allargamento della base imponibile. Per finanziare la riforma, quindi, occorrerà individuare altre leve e l’aggancio al Recovery e quindi alle raccomandazioni comunitarie sembrano suggerire l’orizzonte, spesso evocato e fin qui poco perseguito, dello spostamento del carico fiscale dalle persone alle cose. Ma nemmeno questa è un’ipotesi semplice da perseguire in un Paese in cui la tassazione immobiliare è già stata raddoppiata con il solo passaggio dall’Ici all’Imu e in cui le aliquote Iva sono già cresciute pochi anni fa quando non si è riusciti a disinnescare una delle tante clausole di salvaguardia.
A complicare ulteriormente la sfida c’è il fatto che aliquote e bonus catalizzano l’attenzione del dibattito pubblico, ma non esauriscono i terreni da battere per quella che Draghi in primis ha indicato come riforma complessiva del Fisco. Tra gli obiettivi principali c’è quello di creare un ambiente più attrattivo per gli investimenti, italiani e stranieri. Obiettivo irraggiungibile senza una svolta drastica nel ginepraio di norme che regolano l’accertamento e il contenzioso e che si intasano in un continuo conflitto interpretativo in cui la certezza del diritto si trasforma in una chimera. Per fare tutto questo servono, «competenze» e «tempo». Entrambi in quantità notevoli.