16 Settembre 2024

Attribuire le responsabilità di quanto accade solo al governo in carica sa di alibi delle minoranze almeno quanto sa di scaricabarile della destra la tentazione di addebitarle all’esecutivo di Draghi. Sarebbe meglio prendere atto della situazione e discuterne in modo meno elettoralistico

È difficile sottrarsi all’impressione di un governo sovrastato dalle emergenze. E circondato da una mole così imponente di variabili, da essere costretto a fotografarle e arginarle: senza potere ancora abbozzare una strategia in grado di prevenirle e sconfiggerle. Vale per l’immigrazione, che si presenta come un problema strutturale, fronteggiato ieri con la proclamazione di uno «stato di emergenza» di sei mesi. Anche lessicalmente, infatti, la risposta riflette un fenomeno difficilmente governabile; e aggravato dalla persistente indifferenza di gran parte dei Paesi europei.
Può darsi che alla fine il provvedimento serva davvero a rendere più efficaci e rapide le risposte. Ma sia l’esiguità dei fondi destinati allo scopo, sia i timori di un aggravamento del problema, già emerso nelle ultime settimane, consigliano cautela. Sottolineare troppo l’efficacia di misure che alla fine debbono fare i conti con una realtà difficile rischia sempre di rivelarsi a doppio taglio; e di dare fiato a opposizioni che oscillano tra istinti autodistruttivi e estremismo antigovernativo. Si tratta di dinamiche sempre più evidenti anche quando si parla di Piano per la ripresa.
Il fatto che la logica emergenziale si proietti quasi per inerzia perfino su un progetto strategico per l’Italia, finisce per oscurare limiti oggettivi e margini di manovra risicati.
Per quante critiche si possano rivolgere al governo di destra guidato da Giorgia Meloni, sottovoce il giudizio condiviso è che qualunque esecutivo si sarebbe trovato a affrontare problemi simili: di ritardi, di infrastrutture inadeguate, di difficoltà a spendere i finanziamenti europei.
L’opacità che si riscontra in alcuni dei progetti in incubazione è in primo luogo il frutto di una zavorra burocratica e culturale; e di un cambiamento dello sfondo in cui l’esecutivo è costretto a operare. Pandemia ma soprattutto aggressione russa all’Ucraina sono oggettivamente elementi di trasformazione dai quali nessuna nazione europea può prescindere. Probabilmente, quando a Palazzo Chigi c’era Mario Draghi, la durezza della realtà veniva percepita in modo meno drammatico. Ma si intravedeva già allora.
È comprensibile che da sinistra si accusi Palazzo Chigi di mettere in discussione un’occasione storica per riformare il Paese. L’ammissione delle strozzature, fatta nelle scorse settimane da esponenti del governo, conferma un percorso tutt’altro che facile. Rivela la volontà di non nascondere una serie di passaggi che metteranno a dura prova la credibilità dell’Italia; e di evitare che una battuta d’arresto sui finanziamenti possa essere sfruttata da chi in Europa li ha sempre considerati troppo generosi, e magari aspira a ricalibrarli a proprio vantaggio.
Attribuire le responsabilità di quanto accade solo al governo in carica, tuttavia, sa di alibi delle minoranze almeno quanto sa di scaricabarile della destra la tentazione di addebitarle all’esecutivo di Draghi. Sarebbe meglio riconoscere una consapevolezza trasversale; prendere atto della situazione; e discuterne in modo meno elettoralistico: sia per non esserne travolti, sia per correre ai ripari con l’obiettivo di ridurre al massimo i possibili danni. Pensare che il peso dell’emergenza schiacci solo Meloni e i suoi alleati è una scommessa miope.
Ma lo diventerebbe ancora di più se prevalesse l’istinto di partito all’interno della stessa maggioranza. Il capitolo appena iniziatosi delle nomine che spettano al governo si sta rivelando un esperimento indicativo. Ufficialmente, ieri il Consiglio dei ministri non se n’è occupato: un modo indiretto per dire che non esiste ancora un accordo su chi mettere ai vertici delle aziende con una partecipazione dello Stato. Il leader della Lega, Matteo Salvini, sostiene che non esistono contrasti nella coalizione. Il suo capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, lo ha corretto indirettamente, sostenendo che sarebbe bizzarro se a indicare i nomi fosse un solo partito: per capirsi, Fratelli d’Italia, e cioè Meloni. E infatti, almeno fino a notte fonda non se n’è fatto nulla. Ma il tema delle nomine rimane sullo sfondo come indicazione dell’identità che la destra vuole trasmettere all’esterno: all’opinione pubblica, ai fondi di investimento e alle cancellerie europee.
C’è chi le considera come il laboratorio del primato assoluto della premier Meloni sugli alleati; chi come le forche caudine che ridimensioneranno il presunto strapotere di Palazzo Chigi rispetto a Lega e Forza Italia, indebolita dalla malattia di Silvio Berlusconi; e chi come una prosecuzione della lotta sorda tra Meloni e Salvini per l’egemonia della destra: con i migranti, il Piano per la ripresa, le nomine, perfino le concessioni balneari come terreno della competizione. Ottiche così parziali, tuttavia, renderebbero il governo non solo ostaggio ma catalizzatore di un’emergenza senza fine.

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