Fonte: Corriere della Sera
di Francesco Verderami
Il premier ha messo in mora l’approccio velleitario che è stata la cifra della linea sovranista-populista nel primo anno di governo
Il presidente del Consiglio ha spiegato agli italiani quel che gli italiani avevano già compreso da mesi, e cioè che il governo è paralizzato dalle contese tra le forze della maggioranza. E che lo stallo, prodotto da un’estenuante campagna elettorale, si è aggravato dopo il voto. Dire la verità è un esercizio poco praticato in politica, dove si tende a distorcere la realtà per interessi di parte. In questo caso invece la descrizione drammatica offerta da Conte, la cruda rappresentazione delle condizioni in cui versa il suo gabinetto, è la presa d’atto che così non si può andare avanti. Ed è una chiara denuncia rivolta a Cinquestelle e Lega, a cui chiede un’altrettanto chiara assunzione di responsabilità.
Il premier avvisa i suoi vice che non basteranno risposte vaghe per proseguire l’esperienza del «cambiamento», dato che i problemi da affrontare richiedono unità di intenti. Soprattutto perché certi nodi da sciogliere — a partire dal grave stato in cui versano i conti pubblici — imporranno soluzioni compatibili con le regole e i vincoli di un Paese che è socio fondatore dell’Europa, e ha impegni da rispettare sui mercati internazionali.
È questa la vera svolta nel discorso di Conte, che fissa precisi paletti a Di Maio e Salvini, per evitare fughe in avanti che potrebbero provocare l’apertura di una procedura d’infrazione contro l’Italia e una pericolosa tempesta finanziaria.
Di fatto viene messo in mora quell’approccio velleitario che è stata la cifra della linea sovranista-populista nel primo anno di governo. E il richiamo alla Carta costituzionale è un modo per trovar riparo sotto l’ombrello del Quirinale. In questo contesto, le sollecitazioni sono rivolte anzitutto al leader della Lega, «sovraeccitato» dalla vittoria alle Europee e indotto a prevaricare gli alleati, a invadere le competenze di altri ministeri, a mostrarsi già come il premier in pectore, e a costruirsi magari l’alibi per andare alle elezioni anticipate. Allo stesso tempo, Conte si appella ai Cinquestelle, specie a quanti — «depressi» per la sconfitta elettorale — sono tentati di svestire i panni governisti per ritornare alle origini movimentiste.
Al bivio però, il presidente del Consiglio è costretto a fermarsi e attendere, conscio che il destino dell’esecutivo non è nelle sue mani. Se ha convocato una conferenza stampa per parlare al Paese, è perché non può convocare il Consiglio dei ministri né può presentarsi in Parlamento. Sarebbero stati questi i percorsi istituzionali corretti, ma se Conte l’avesse fatto, avrebbe formalizzato la crisi. Tocca invece a Di Maio e Salvini assumersene, se del caso, la paternità. Così, visto che i suoi due vice non lo ascoltano, ha deciso di farsi ascoltare attraverso gli italiani.
Più che un’innovazione è una deviazione dalle regole, e la forzatura evidenzia la debolezza politica del premier. Tuttavia la scelta di «parlare agli italiani» lo mette in sintonia (anche) con quei cittadini, che il 26 maggio hanno dato un evidente segnale di disaffezione. Al di là dei risultati dei singoli partiti, infatti, l’aumento dell’astensionismo — in controtendenza rispetto al resto d’Europa — è stato il sintomo di una sfiducia che non può essere assorbita da un tweet o da un comizio. Né tantomeno da un governo fondato sulle risse. La pazienza è finita.