21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Vertice a Palazzo Chigi tra i partiti di maggioranza, dopo le tensioni sulla legge di Bilancio e il salvataggio della Banca Popolare di Bari. Il Pd vuole un’intesa per blindare l’esecutivo


Verifica di governo, primo atto. Si comincia lunedì sera a Palazzo Chigi, all’indomani del Consiglio dei ministri che ha messo fine al duello sulla Banca popolare di Bari. Non senza scontri, anche lessicali. La ministra Teresa Bellanova di Italia viva ha insistito fino a notte per inserire nel titolo del decreto la parola «salvataggio» al posto di «rilancio». Per i dem, la prova che «hanno l’ossessione di Banca Etruria». Ancora scintille tra i renziani e Di Maio, che vuole dare in pasto all’opinione pubblica la lista di chi ha ottenuto illegittimamente i crediti.
Avanti così, in una continua rincorsa mediatica. Lunedì al Senato si vota la prima fiducia sulla legge di Bilancio. Renzi prenderà la parola, attaccherà ancora sul finanziamenti ai partiti e proverà a intestarsi le scelte positive della manovra. E in serata Giuseppe Conte metterà i ministri e i capi delegazione attorno a un tavolo per cercare di ricompattare la sua litigiosa squadra. Nella testa del presidente del Consiglio il nuovo orizzonte si chiama «Agenda 2023» e già la data è un problema, perché da giorni Zingaretti parla di «Agenda 2020».
Al Nazareno non ne possono più del continuo rincorrersi di Di Maio e Renzi e la stanchezza del segretario comincia a contagiare diversi dirigenti di peso. C’è chi pensa che l’ex premier e fondatore di Italia Viva abbia siglato un patto per il voto con Salvini, grazie alla mediazione di Denis Verdini. E c’è chi rimpiange la scelta di Conte. «Era meglio mandare a Palazzo Chigi Di Maio, che aveva i numeri per stabilizzare la maggioranza», rimpiange le scelte di fine agosto un dem che frequenta i piani alti del Nazareno. Ormai è fatta, il capo politico ha perso il controllo dei gruppi e questo, per il Pd, è il rischio più grande per il governo giallorosso. La forza delle tensioni è tale che Conte ha fretta di impostare il rilancio. All’ordine del giorno del vertice convocato alle 21 ci sono dossier ancora aperti, come Alitalia e Ilva, ma nei piani del premier la riunione servirà a mettere giù una bozza di cronoprogramma e soprattutto a stringere i bulloni della maggioranza.
I renziani continuano a opporsi su ogni provvedimento, un muro di no che sta infastidendo non poco il presidente del Consiglio. Il quale però, se anche pensasse che sono degli irresponsabili, ha deciso di tenersi fuori dalle lotte interne evitando commenti. Altrettanto nervosismo innescano gli stop and go di Di Maio, che costringono Conte e il capo delegazione del Pd, Dario Franceschini, a estenuanti mediazioni. Ma anche qui il premier smussa e rassicura, anche se più d’uno lo avrebbe sentito seminare avvisi di questo tenore: «Se la verifica di governo fallisse, sarei io per primo a prenderne atto e a staccare la spina». Al vertice del Pd sospettano che Renzi, a dispetto di sondaggi poco incoraggianti per Italia Viva, mediti di innescare la crisi per andare a votare con il Rosatellum, che ha una soglia di sbarramento bassa, fissata al 3 per cento.
Altrettanto insofferente ai protocolli governativi si mostra Di Maio. Il capo politico del M5S, descritto come «molto nervoso» dopo la fuga di tre senatori verso la Lega, alza il tiro sulle banche per rispondere alla sfida mediatica di Salvini. Ma cerca anche di assorbire l’entusiasmo (e i voti) delle Sardine, con grandi complimenti e l’augurio di poter lavorare con loro. Se non fosse che i toni delle piazze sono molto più vicini alla sinistra e la sintonia con il ministro degli Esteri sembra venire meno già dalle prime mosse. Quando ha saputo che le Sardine si erano riunite in un centro sociale occupato di Roma, Di Maio ha sobbalzato: «Cominciano con il piede sbagliato». Il quadro è così instabile che Zingaretti pensa al voto, ma non vuole lasciare impronte. Per restare al governo il leader del Pd chiederà un accordo su Europa, giustizia, autonomia, fisco. E il mantra al Nazareno è di questo tenore: «O i 5 Stelle accettano, o noi non reggiamo».

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