Tra welfare e warfare: la svolta americana spinge l’Europa a nuovi equilibri tra stato sociale e riarmo
Vogliamo scuole e ospedali o missili e cannoni? Parafrasando liberamente un arcinoto e drammatico discorso di Mussolini, alcuni leader italiani di maggioranza e di minoranza ci hanno ricondotto a questo bivio retorico dopo la svolta di Ursula von der Leyen sul riarmo europeo. Naturalmente per trarne una conclusione opposta a quella che il dittatore ottenne a Belluno il 24 settembre 1938: chi mai vorrebbe i «cannoni», oggi, potendo scegliere il «burro» incautamente disdegnato allora dall’infervorata piazza fascista? Il punto, purtroppo, sta proprio nella libertà di opzione.
La questione rimanda ai grandi temi della pace e dei mezzi per mantenerla. Con più urgenza adesso in Italia, per le fibrillazioni trasversali agli schieramenti politici che aumentano andando verso la manifestazione europeista di sabato, carica di propositi anche antitetici tra loro. Ma il destino degli italiani è comune a tutti gli europei: sballottati in un mare procelloso che ha fatto saltare in meno di due mesi alleanze consolidate da ottant’anni. Viviamo un tempo di pericoli, per dirla con la presidente della Commissione Ue, e la coperta sarà corta.
La guerra dei dazi, aperta dagli americani, ha appena indotto l’Unione ad annunciare una risposta «forte ma proporzionata» su flussi per 26 miliardi di euro. Trump sta in qualche modo forgiando l’Europa: «per contrarietà», direbbe Guccini. A causa sua, la prima alternativa che sembra pararcisi davanti è tra welfare e warfare.
Noi europei, sempre più anziani e meno attivi, abbiamo da molto issato la prima bandiera: una protezione sociale invidiabile, fatta di pensioni, sanità, sussidi, assistenza familiare. La popolazione europea, Regno Unito incluso, rappresenta circa il 7% di quella mondiale ma ingurgita una quota di welfare che, a seconda dei criteri di stima, va dal 35 al 40%. Grazie a otto decenni di protezione americana, proprio quella che Trump pare sempre più deciso a negarci, abbiamo sviluppato invece un rapporto inverso col warfare: che non va inteso soltanto come stato di guerra ma come pianificazione di quella complessa macchina militare che può garantire la difesa di un Paese nel rissoso mondo di oggi. Avevamo dichiarato guerra alla guerra, certi che per non avere nemici basti non volerne. Adesso ci scopriamo costretti a unirci per sopravvivere.
Lucrezia Reichlin ha spiegato su queste colonne come forza militare e innovazione tecnologica vadano insieme e, quindi, come Pil e capacità competitiva europea potrebbero infine trarre persino vantaggio da questo tornante obbligato: al dunque, diremmo noi, una porzione del benessere uscito dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra. Ma la pigrizia delle ideologie fatica a adeguarsi ai cambi di stagione.
Da Yalta in poi, gli interessi degli Stati Uniti nella spartizione delle sfere di influenza ci hanno illuso di poter vivere per sempre quali vassalli privilegiati, tagliando su armi ed eserciti per convertire la spesa in qualità della vita ed eguaglianza sociale. L’Europa, grazie a quest’illusione, è stata a lungo una meraviglia planetaria. Nel 2004 un irenista come Jeremy Rifkin, consulente di Prodi alla Commissione europea, s’avventurò a sostenere che il «sogno americano» era al tramonto e che il Ventunesimo secolo sarebbe stato contraddistinto dal «sogno europeo»: libertà e soft power, pace e diritti per tutti. Aveva dimenticato di dire che quel sogno ce lo stavano pagando proprio gli americani concedendoci anche il lusso di criticarli per come lo facevano.
Qualsiasi legittima riserva si abbia ora sulla qualità del piano di riarmo europeo, il dato di fatto è che questo Occidente non esiste più. Il protezionismo può essere prodromo di conflitti armati, come ha ricordato Sergio Mattarella. La brutalità mercantile di Trump ha squadernato l’evidenza che welfare e warfare sono, almeno in parte, entità per noi inversamente proporzionali, essendo un aumento di tassazione difficilmente praticabile. Il presidente degli Stati Uniti subisce la fascinazione di Putin, ma l’Ucraina in un pacco dono per Mosca sarebbe premessa di nuovi sconquassi, a cominciare dalla Moldavia e dalla Lituania. I nostri servizi di intelligence lanciano ogni anno allarmi sulla pericolosità ibrida della Russia per la stabilità dell’Europa: si guardi al calvario della Romania per togliersi ogni dubbio.
È il momento di passi dolorosi. Intendiamoci: la formula «meno previdenza e più armi» fa rabbrividire molti, e a ragione, creando curiose convergenze. Matteo Salvini, dopo avere indossato per le photo-op tutte le divise che gli capitavano a tiro, ha deciso di adottare il laticlavio spirituale del pacifista: invocando scuole e ospedali anziché missili e cannoni. Con le medesime parole usate a sinistra da Nicola Fratoianni. Il quale si duole che il patto di stabilità non sia stato infranto per queste spese ben più nobili. Ed è certo difficile da contraddire sul rischio che i tagli allo stato sociale consegnino consensi alla più becera destra populista. Il nodo è però più ingarbugliato: la sanità, ad esempio, si poteva supportare per tempo col Mes sanitario, non lo si è fatto e ora si piange. Ancora una volta, le pulsioni pacifiste contengono slanci veri e vere ipocrisie. Creando contorsionismi semantici: «Sì alla difesa europea, no al riarmo».Ma anche storiche contraddizioni gravate di doppiezza: Miriam Mafai raccontava come un ruolo chiave nel movimento dei Partigiani della Pace degli anni Cinquanta lo avesse Pietro Secchia, il più duro filosovietico del Pci togliattiano. Al netto di un certo pacifismo peloso, i veri idealisti, meritevoli di assoluto rispetto, non dovrebbero comunque ignorare che oggi la sicurezza militare di una collettività è diventata precondizione per il godimento di qualsiasi altro diritto, beneficio o sussidio. L’Ucraina sta lì a farcene lezione: con le sue scuole abbattute e i suoi ospedali sventrati da un invasore apparso alla porta una mattina.