C’è il rischio di irrigidirsi sulle proprie posizioni a priori, delle quali non troviamo che conferme. Senza vedere i fatti
È lecito, in queste ore, perdere l’equilibrio. È lecito essere in pena per Gaza, il peggior luogo possibile in cui trovarsi sulla terra, pur senza smettere di essere in pena per gli ostaggi israeliani, per le vittime del 7 ottobre e le loro famiglie. Ed è lecito anche, dopo gli attentati di Arras e di Bruxelles, sottrarre al Medio Oriente un frammento di quella pena per rivolgerla di nuovo verso noi stessi, intimoriti dal ritorno di una stagione che ci eravamo affrettati a stabilire conclusa.
Iniziava così una versione precedente di questo articolo. Era già in pagina martedì sera, pronta per uscire la mattina seguente, quando è arrivata la notizia del bombardamento dell’ospedale di Al-Ahli. Ogni riga successiva, che un attimo prima mi sembrava ragionevole, è stata sorpassata dalla realtà. E lo scenario che consideravo come eventuale — una strage massiccia a Gaza dovuta a un’offensiva via terra — si è inverato prima del previsto, solo in forma diversa. In guerra sentimenti e opinioni invecchiano in fretta, vengono continuamente sopraffatti da altri più recenti, ma in questa guerra accade con una frenesia particolare, per quanto è densa, circoscritta e al contempo globale, per quanto investe strati di convinzione depositati in precedenza in ognuno di noi.
S i potrebbe pensare che una simile velocità ci renda automaticamente più scattanti, ricettivi, mutevoli e anche guardinghi, invece ha quasi sempre l’effetto opposto, quello di farci irrigidire sulle nostre posizioni a priori, delle quali non troviamo che conferme su conferme.
Martedì sera, in pochi minuti, X si è riempito di accuse a Israele per il bombardamento dell’ospedale, provenienti non solo da privati ma anche da organizzazioni internazionali. Azione-reazione, evento-accusa, tutto immediato, nessun tempo di accertamento, anzi qua e là segnali di soddisfazione rabbiosa. Pochi minuti ancora e sono arrivate, sotto ogni post, le smentite degli account israeliani. Ha iniziato a circolare un video e alcune ore dopo è spuntata l’intercettazione di due esponenti di Hamas. Altre smentite incrociate, altri commenti simultanei. Un requiem per l’informazione.
Chi ha lanciato quel razzo — lo si comprende benissimo — non è affatto un argomento filosofico, fa una differenza enorme. Ma la farebbe davvero solo in un mondo ancora propenso a considerare i fatti uno per volta e nel loro specifico, un mondo capace di trattenere il fiato quel tanto necessario a emettere un verdetto sensato. In questo mondo surriscaldato, invece, la verità arriva sempre un attimo troppo tardi, e nel momento stesso in cui tocca il terreno incandescente, evapora.
Per buona parte del mondo arabo e per molti detrattori di Israele, quel razzo era israeliano fin dal primo secondo, fin dal primo tweet, e tale rimarrà. Per altri non è mai stato israeliano, nemmeno nell’intervallo di ragionevole dubbio. Anche molti di noi hanno deciso già nei primi istanti chi lo avesse lanciato e non cambieranno idea. Se fonti più autorevoli ci smentiranno, andremo semplicemente a sceglierne altre che si adattino meglio al nostro pregiudizio. Resterà comunque un’ombra, un flash impresso sulla retina, dove per un attimo abbiamo visto esattamente quello che pensavamo di dover vedere. «Bias di conferma»: si chiama così la tendenza psichica innata a cui dovremmo tutti opporci in queste ore e che invece continuiamo a ripetere. Dovremmo prenderci più tempo, molto più tempo a ogni passaggio, diffidare dei nostri giudizi e di quanto possano essere fedeli al nostro stesso pensiero in mezzo a una tale turbolenza emotiva, ma di tempo non sembra essercene, e comunque non è così che funziona il presente. Il requiem è anche per la nostra obiettività.
Ciò che è stato vero da subito, tuttavia, ciò che continua a essere vero per tutti, è che centinaia di persone sono morte nel bombardamento di un ospedale, in quello che dovrebbe essere il luogo più sicuro e intoccabile della nostra civiltà; che altre centinaia di migliaia di persone sono a Gaza in una situazione che fa vergogna all’umanità intera, un’umanità intera che pur sapendolo si rivela del tutto impotente, anche di creare una via di salvezza per i civili; che tra quelle persone ci sono ancora decine di ostaggi israeliani, e che Israele continua a essere sotto attacco (un dato, questo, per nulla secondario ma che per qualche ragione passa sotto silenzio, come se il 7 ottobre fosse stato un’eruzione di rabbia circoscritta e non una dichiarazione di guerra).
Per noi, che osservando tutto ciò non possiamo che occuparci della nostra tenuta psichica, la domanda è forse questa: siamo in grado di tenere insieme tutto? Possiamo, almeno noi, piangere le vittime del rave e dei kibbutz e insieme quelle dell’ospedale, senza che si elidano reciprocamente? Possiamo essere critici, anche molto critici, riguardo alla politica estera di Israele, furiosi per l’oppressione di Gaza, e insieme riconoscergli il diritto a una risposta militare, alla liberazione dei propri cittadini e al tentativo di debellare un’organizzazione terroristica che ha come scopo la sua cancellazione? Sono contraddizioni strazianti, emotivamente ancor prima che intellettualmente. Strazianti ma non così ambigue, all’interno delle quali cerchiamo uno spazio dove restare umani.
Nelle ultime ore sono in tanti a praticare questo esercizio faticosissimo: sui giornali, nelle conversazioni private, silenziosamente in sé stessi. Che cosa ci rende tutto ciò? Dei virtuosi o degli abietti? Dei moderati o dei debosciati? Non lo so davvero, meno che mai adesso. Ma so che lo sforzo di esistere su più livelli, di diffidare delle questioni di principio per occuparsi dei singoli elementi, di ciò che è vero e ciò che non lo è, di ciò che è terrorismo e ciò che non lo è, di ciò che è un crimine di guerra e ciò che non lo è, di ciò che è proporzionato e ciò che non lo è, del rispetto delle regole proprio quando i contesti si fanno più sregolati, è qualcosa di molto simile a una definizione del vivere in una democrazia liberale.
Eppure qualcosa è cambiato anche in noi negli ultimi dieci anni. Se confronto i dibattiti di queste ore con quelli attorno agli attacchi terroristici in Europa nel 2016, mi sembra che assomigliamo a una società più esacerbata, molto più incline a identificarsi nei radicalismi. Saranno gli anni intercorsi ad averci inasprito: la pandemia, una guerra, il senso di crollo imminente eccetera, elenchi ripetuti così tante volte da aver perso sapore. Saranno, più specificamente, le innumerevoli forme di populismo e la ferocia aumentata dei media, il loro imitare senza freni la brutalità binaria dei social, ad aver cambiato la nostra postura nei dibattiti. O sarà che è proprio questo il risultato a medio termine dell’estremismo: indurre, anche a distanza, altro estremismo, creando un campo magnetico. Polarizzare l’aria tutto intorno per migliaia di chilometri.
Non esiste al mondo un magnete più potente di Israele-Palestina. L’attualità di cui stiamo discutendo assume forme diverse a seconda di dove riavvolgiamo il nastro. A coloro che lo riavvolgono continuamente al 1948, per esempio, alla fondazione di Israele e alla sua presunta illegittimità, non c’è granché da dire. Osserviamo gli stessi fenomeni ma in sistemi di riferimento non inerziali, usiamo strumenti calibrati diversamente quindi le nostre misure saranno sempre fra di loro sballate. Per questo, il 7 ottobre, la mia reazione istintiva è stata di proporre, provocatoriamente, di far partire un nuovo nastro. Non di cancellare i precedenti, ma di inaugurarne anche uno nuovo, riconoscendo tutti, senza infingimenti, che quello era un attacco terroristico e in quanto tale eccedente rispetto al contesto. Non si trattava di una proposta a beneficio esclusivo di una parte: rimuovere l’opacità su quel giorno permetterebbe di sottrarre anche la popolazione palestinese a un’opacità contraria, che grava su di loro insieme a tutto il resto. E di valutare la risposta militare israeliana con maggiore lucidità, distinguendone ogni iniziativa specifica come legittima oppure no, secondo i nostri standard. La nostra fede democratica non è fatta solo di principi ma anche di questa vocazione al particolare, al ricondurre ogni evento alla sua verità fattuale, per poi valutarlo in base alle regole. La specificità come antidoto all’ideologia. È proprio ciò che un estremista non fa. Perché un estremista non si permette mai di perdere l’equilibrio, non si lascia scompaginare i pensieri dalla realtà che accade, non si confonde, non riscrive e non ritratta. Riascolta solo, all’infinito, lo stesso nastro.