22 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

renzi

di Goffredo De Marchis

Il “rottamatore” ha scalato l’Italia e scosso il Palazzo ma molti obiettivi, su tutti la ripresa, sono rimasti lontani. Domani il traguardo simbolo

Mille giorni vissuti pericolosamente. Sempre sul filo, senza rete. A Matteo Renzi piace disegnarsi come un trapezista. “Mi gioco l’osso del collo”, è la sua immagine preferita. Due anni e mezzo di governo bruciati nel segno della velocità e della visibilità. E il 4 dicembre che si avvicina, il giorno del giudizio degli italiani, che diranno se, secondo loro, Renzi è davvero uno che fa le cose o uno che racconta che fa le cose. Un leader del fare o un leader del raccontare: realtà contro storytelling, riforme contro promesse. Se è il politico “giovane, bello, carismatico, innovatore” elogiato da Obama sul prato della Casa Bianca il 18 ottobre o se assomiglia al suo aereo, il contestato Air Force Renzi, jumbo vistoso e in grado di attraversare gli oceani senza scalo che però, un anno e mezzo dopo il salatissimo leasing, non vola, bloccato a terra da misteriosi problemi (a proposito, i veri motivi dello stop sono il ritardo nell’allestimento della camera da letto presidenziale e la pista troppo corta, per un bestione simile, dell’aeroporto di Firenze).
I mille giorni sono una strana unità di misura. Una cifra tonda, certo, che è legata soprattutto al titolo del famoso libro di Arthur Schlensiger Jr sull’esperienza, interrotta tragicamente, di John Fitzgerald Kennedy. L’inizio dell’avventura renziana al governo ha molto in comune con quella presidenza: l’età (JFK diventa presidente a 43 anni, Renzi a 39), la nuova frontiera, mitologico slogan di rottura, e la fiducia, asso nella manica che porta il Pd di Renzi al 41 per cento delle Europee. Cosa è rimasto, dopo questo tempo, di quelle armi vincenti?
Oscar Farinetti, padrone di Eataly, interprete genuino della rottamazione, ha messo in guardia i renziani dal palco della Leopolda, dieci giorni fa: “Dobbiamo tornare a essere simpatici. Dobbiamo chiedere umilmente fiducia perché è il motore che fa girare tutto”. Dario Franceschini, politico navigato, oggi alleato del premier domani chissà, offre invece la chiave del successo di Renzi: “Non esiste, in Italia, un altro come lui. Jobs Act: uno di noi si sarebbe fermato davanti al veto dei sindacati, lui no. Matrimoni gay: un altro avrebbe piegato la testa per non scontentare la Chiesa, lui no. E potrei continuare”. Come dire: il leader c’è, non rompe solo le regole dell’immagine, ma anche quelle che tengono l’Italia inchiodata ai suoi vizi da 20 anni.
Tutto comincia con l’ingresso a Palazzo Chigi a bordo di una Smart, guidata dal deputato Pd Ernesto Carbone. “La mia scorta è la gente”, dice Renzi per significare il cambiamento. È il 22 febbraio 2014, diventa presidente del Consiglio. Ha fatto tutto alla velocità della luce. L’8 dicembre conquista la segreteria del Partito democratico, a gennaio stringe il patto del Nazareno con Berlusconi per riformare la Costituzione e la legge elettorale, a febbraio scrive su Twitter a Letta “Enricostaisereno”, qualche giorno dopo gli soffia il posto e sempre su Twitter, dallo studio di Napolitano dove presenta la lista dei ministri, scherza rivolto ai giornalisti in attesa: “Arrivo, arrivo…”. Leader futurista, un baleno che esce dal quadro. Forma un esecutivo composta per metà da donne (ma adesso tre hanno lasciato e sono state sostituite da uomini); vive l’emozione delle prime slide a Palazzo Chigi; promette, spericolato, una riforma al mese mostrando il calendario e 1000 asili nido in mille giorni. Vara il bonus degli 80 euro e sull’onda di una vera luna di miele col Paese a maggio prende il 40,8 per cento alle elezioni europee.
Molte riforme le porta in banchina. Il nuovo mercato del lavoro, senza articolo 18, crea 655 mila posti lavoro (fonte Istat). Fa approvare l’Italicum, combatte e incassa la riforma costituzionale che ora viene sottoposta a referendum. Entro dicembre inaugura la Salerno- Reggio Calabria senza cantieri, ma perde la scommessa con Vespa sui rimborsi dei debi- ti della pubblica amministrazione. Assume Diego Piacentini, vicepresidente di Amazon, per l’agenda digitale. Sulle coppie gay compie un piccolo miracolo. Rompe, ricuce, mette la fiducia, toglie la stepchild adoption e alla fine l’Italia ha i matrimoni gay, ribattezzati unioni civili solo a uso burocratico. Abbassa Ires, Irap, toglie l’Imu, ma non realizza la riforma complessiva del fisco più volte annunciata. Il nuovo assetto della giustizia è fermo in Parlamento, ormai da mesi. L’economia cresce molto poco, però torna un timido segno più. Litiga con l’Unione europea e non solo durante questa campagna referendaria. Chiede la fine dell’austerità e un impegno comune sui migranti. Lotta, protesta, attacca. E intanto l’Italia continua a salvare vite umane nel Mediterraneo. Con orgoglio. Da agosto è chiamato ad affrontare il terremoto di Marche, Lazio e Umbria. Lo fa senza proclami, affidandosi ai sindaci e alla Protezione civile, ma non rinuncia allo slogan di Casa Italia.
Per paradosso, uno dei grandi successi del suo esecutivo viene ottenuto seguendo la linea della prudenza anziché quella dell’arrembaggio. Nell’Europa minacciata dal terrorismo, all’indomani della strage del Bataclan, il premier dosa le parole, non dichiara guerra a nessuno, semmai precisa: “Dobbiamo spendere un euro per la sicurezza e un euro per la cultura”. Nel nostro Paese non ci sono attentati. E quando Renzi reclama un ruolo guida per l’Itala in Libia, in realtà sottotraccia fa finta di niente. Per cui invece dei 5000 militari chiesti dagli Usa, ne mandiamo un centinaio a difendere il fragile governo di Tripoli. Una scelta che finora si è rivelata saggia.
Il 5 marzo 2014, quasi mille giorni fa, una scolaresca di Siracusa lo accoglie cantando una canzoncina. S’intitola “Clap and Jump per Renzi”: “Facciamo un salto/battiam le mani/Ti salutiamo tutti insieme/Presidente Renzi… Dei nostri sogni/delle speranze che ti affidiamo con fiducia oggi a ritmo di blues”. Apoteosi dell’imbarazzo e della popolarità allo stesso tempo. Oggi il premier ammette, come Farinetti, di non essere simpatico, di avere una fetta del Paese contro. “Meglio arroganti che simpatici senza combinare nulla”, dichiarava surfando sull’onda del 41 per cento. Ha smesso di dirlo, forse di pensarlo.
Confessa anche qualche errore: la Buona scuola credeva fosse una pagina radiosa invece ha provocato solo guai e voti perduti. La Rai del suo amico Campo Dall’Orto doveva rappresentare una svolta, al contrario annaspa tra flop e critiche. Deve tenere insieme il potere e la forza della novità, della rottura. Qualcuno fa notare che non rischia più l’osso del collo se sotto ha una rete di protezione bella fitta: Sergio Marchionne, la Confindustria, i grandi banchieri. Succede, quando si governa da oltre due anni e mezzo. “E’ l’unico leader “, sentenzia Silvio Berlusconi che di uomini se ne intende. Se sarà in grado di volare, lo sapremo il 4 dicembre.

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